giovedì 5 luglio 2012

La Gravità delle Cose (2012)



Progetto e Foto: Pasquale Moretti
Presentazione: Valentina Soranna





A photograph is not an accident – it is a concept. - Ansel Adams



Gravità - che non è solo una forza, ma, nella sua ambivalenza, una constatazione del peso e, di conseguenza, della caduta.


Foto che si muovono a larghi passi tra la grande scuola dello still life e le "composizioni d'affezione" alimentari di Spoerri, sostituendo alla componente memoriale e nostalgica del francese un nuovo carattere di fragilità constatata, tutto racchiuso nella metafora del languido biscotto che, attratto dal liquido nella tazza, inevitabilmente si diparte dalla sua metà. Fragilità non solo constatata, ma riproposta e reiterata con una certa 'rassegnazione' esistenziale di fondo, raccontata da un osservatore/regista che si limita a guardare dall'alto ciò che non si può evitare, ciò che è destinato ad accadere. L'orizzontalità delle superfici, divenuta verticale nella trasposizione fotografica per chi guarda, appone all'immagine una certa instabilità: la sensazione che tutto, seppur fisso, in qualche modo possa scivolare verso il basso; in un contesto ambientale che, seppur bagnato da un sole accecante che tutto immerge in un lattiginoso biancore, trasuda una certa irrequietezza sottesa, vibrante attraverso i colori e il dinamismo delle cose, ma circolare nella sua essenzialità primaria. Nella pulizia quasi asettica. Un 'quasi' che si spiega in sé stesso e, facendolo, diviene l'esegesi dello stesso progetto, in bilico tra una dichiarata fissità e un'inevitabile tensione.

La volatilità delle polveri, la marcescenza della frutta, la viscosità di liquidi e grassi - allo stesso modo della porcellana di gusto inglese - perdono in un soffio le  differenze molecolari, nell'ottica in base alla quale tutto - al di là delle differenze - subisce l'attrazione verso il basso. 

(luglio 2012)









giovedì 22 marzo 2012

A New Kind of Beauty - dal paradigma alla norma.


L'immaginario era l'alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l'alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ed è paradossalmente il reale che è diventato oggi la nostra vera utopia - ma è un'utopia che non appartiene più all'ordine del possibile, perchè non si può che sognarne come un oggetto perduto. (1)

Capita, a volte, che un servizio fotografico costituisca la differenza, nell'indiscriminato flusso di pensieri quotidiani; capita soprattutto quando la maestria del fotografo suggerisce una riflessione capace di oltrepassare la carta stampata, scardinando le coordinate di una giornata qualsiasi, insinuandosi come un preziosissimo germe nella riflessione personale. Così è stato, per me, approcciando ingenuamente alla serie A new Kind of Beauty anni fa, prim'ancora di terminare gli studi, faccia a faccia con quegli sguardi; promettendomi di ricercare, di saperne di più, magari di scriverne, un giorno.


Sono sguardi impassibili e penetranti, quelli che ci osservano dall'obiettivo di Philip Toledano.
Sguardi di uomini, donne e transgender che hanno affidato alla chirurgia il desiderio - più che la necessità - di ricostruirsi per ritrovarsi.
Ci si ritrova posti senza pietà davanti ad un interrogativo pulsante, quantomai attuale: la chirurgia come mezzo odierno per ricongiungersi alla propria identità; o, semmai, la via più semplice per allontanarsene, nella ricostruzione di una nuova e totalmente autonoma facciata.

Philip Toledano, A new Kind of Beauty series, 2010

Non solo di bellezza si parla, di fronte alla smania del mostrarsi.
Corpi che sfidano il grottesco, impalcature pompose e talvolta traballanti, anche se rivestite di una sapiente regia che affonda l'ispirazione nella pittura fiamminga di pura luce, nelle pose rinascimentali, nel candore di una pseudo-classicità postcomtemporanea (mi si perdoni l'ossimoro) che quasi risulta stridere con l'artificialità del soggetto rappresentato; pur tuttavia, in qualche modo, lo accarezza.

'Un nuovo tipo di bellezza', appunto, che sfida la corsa del tempo, l'avanzare della vecchiaia, l'inevitabilità della morte con un rigore metodico, "come chi compera una vecchia automobile e la ripara un po' per volta. Noi ci aspettiamo delusione, solitudine, tristezza, ma è un nostro preconcetto. Quello che c'è dietro è solo un grande sforzo" dice l'autore stesso in un intervista a D di Repubblica (2010). 


Ricostruirsi, al di là dell'umana natura, con una mano tesa all'artificiale, intraprendendo un percorso che associa la carne alla plastica con sempre più 'naturalezza' (se di naturalezza in questo caso si può parlare), facendo apparire le esperienze di Orlan quanto mai sorpassate e gli esperimenti di Cindy Sherman oltremodo profetici. Liddove la prima, infatti, trasformava le operazioni di chirurgia in performances artistiche, giungendo ad un collage di pezzi anatomici provenienti dai canoni d'ogni tempo, la seconda già aveva intravisto  nella possibilità di 'diventare la maschera' il nuovo canone del XXI secolo. Quello che in Orlan era l'intento di scioccare lo spettatore, in Toledano diventa mera registrazione della realtà, che non turba più poiché al di fuori di ogni tipo di avanguardia, accessibile a tutti a livello globale - cash alla mano.



Ha perfettamente ragione l'autore quando si chiede se la bellezza sia influenzata maggiormente dai canoni estetici e culturali o dalla chirurgia, quando scrive che probabilmente si è già sulla strada di un tipo di bellezza tutta nuova, che si muove tra l'artificiale e la cultura popolare. E ha ragione, a mio parere, anche l'autore del Dailymail quando, il 6 marzo 2012, scrive che i soggetti fotografati, nel tentativo di corrispondere ad un paradigma, perdono la propria individualità, divenendo un esercito piallato ad immagine e somiglianza del modello, il cui carattere 'disturbante' non può più essere riconosciuto come tale quando sembra piuttosto costituire l'affermazione di una nuova norma.

Se il mondo di Toledano ci sembra lontano, nei suoi iperreali 'quadri' americani in chiaroscuro, la controprova è a portata di telecomando e accessibile a tutti; anche solo in un breve giro di boa tra i notiziari all'ora di punta, un fiorente catalogo di orripilanti creature botticelliane gonfiate come vetri di Murano sorridono (o tentano di sorridere) in camera, ripetendosi incessantemente in una sorta di incubo al plasma. 
Ma è proprio un incubo quello di cui si parla o forse la 'nuova normalità'?

Spesso mi capita di riflettere sull'assunto secondo il quale 'il manichino dev'essere manichino' - atto allo scopo per il quale è prodotto - e di pensare a quanto il soggetto della frase stia diventando intercambiabile.


(1) J. Baudrillard, CyberfilosofiaMilano-Udine, Mimesis Edizioni, 2010, p. 10.

lunedì 5 marzo 2012

La carne e il suo contrario. Il corpo anoressico *



Il corpo anoressico è un corpo desiderante. Anzi, è IL corpo desiderante per eccellenza, che ha vergogna della propria richiesta smodata, eppure violentemente la dichiara. Epidermide orante, che ha volontariamente disimparato i codici dell’amor proprio, rinchiudendoli in un alfabeto circoscritto alle limitazioni auto-inflitte. Il corpo anoressico è un corpo a disagio, che vive la propria condizione in totale scollamento dalla realtà, per adagiarsi in una dimensione del tutto autonoma, ricostruita di sana pianta, nella quale il demone della magrezza diventa un leviatano che non lascia scampo. Con l’aiuto della ricostruzione brillante di Massimo Recalcati, che da anni seguita ad occuparsi dell’argomento, convalidata da testi clinici e testimonianze delle pazienti, entreremo nel vivo di una questione che da anni si trascina insoluta, sfociando in ambiti che non le appartengono – la televisione-spazzatura ne è solo un esempio – a metà strada tra il proselitismo e la condanna da talk show. In anni come questi, di apparente emancipazione, è ancora il caso di parlare di CORPO.


3.1  Il corpo a disagio.

Ancora una volta, partire dal concetto: un corpo a disagio è innanzitutto un’interiorità a disagio, che la pelle semplicemente svolge e precede; è un’identità che non sente di avere un posto nel mondo, un’identità frammentata o infranta, che ha incontrato un intoppo nel percorso del divenire. Un corto circuito a voltaggio infinito, concentrato nella discrepanza tra il mondo introiettato e quello reale, tra l’immagine che si ha di sé e quella obiettivamente accolta. Tecnicamente parlando, si potrebbe partire dalla dismorfofobia[1] (dal greco dis – morphé, forma distorta e φόβος, phobos = timore), ovvero l’incongruenza tra la percezione del proprio corpo rispetto al modo in cui è visto dall’altro, il terrore di non riconoscersi nelle proprie “vesti” perché non rispondenti all’immagine internamente costruita, che agli stadi più acuti sfocia in disturbi alimentari quali anoressia, bulimia, binge eating e via discorrendo. Il disturbo prevede una preoccupazione eccessiva per un difetto fisico - talvolta inesistente – che impedisce al soggetto che ne soffre di considerarlo secondario, tanto da diventare elemento caratterizzante del proprio vedersi e – di conseguenza – del proprio essere al mondo. «La gran parte dei soggetti con questo disturbo sperimentano grave disagio per la loro supposta deformità, descrivendo spesso le loro preoccupazioni come “intensamente dolorose”, “tormentose”, o “devastanti”. I più trovano le loro preoccupazioni difficili da controllare, e fanno pochi o nessun tentativo di resistervi. (…) I sentimenti di  vergogna per il proprio “difetto”, possono portare all’evitamento delle situazioni di lavoro, scuola o di contatto sociale»[2].
La pelle si svuota, si smaglia, si ritira; perde d’idratazione affettiva, come una foglia secca, e s’accartoccia. Il rifiuto di sé si tramuta in rifiuto dell’altro, di altro, di qualsiasi tipo di altro in quanto esterno-da-sé, poiché un rapporto distorto con la propria esteriorità porta inevitabilmente a difficoltà relazionali o – nei casi peggiori – ad una totale impossibilità di confronto. Il corpo anoressico vive parzialmente; o meglio: non vive, se non nella condizione che si è prefigurato; cammina in un mondo che non gli appartiene, se non in funzione della sua distanza. Scrive Merleau Ponty: «L’esistenza corporea che defluisce attraverso di me senza la mia complicità è solo l’abbozzo di un’autentica presenza al mondo»[3]. E questo è esattamente quello che accade. Unitamente, si prefigura la perdita del senso del tempo e dello spazio, com’è possibile leggere dalle testimonianze delle pazienti in cura: «Si è in uno stato di perpetuo intontimento – non ci si sente veramente presenti. Sono arrivata a un punto in cui dubitavo delle persone che avevo intorno. Non ero sicura che esistessero veramente. (…) Non v’era niente da dire – sentivo costantemente che non mi avrebbero comunque capita.»[4]

La carne, da testimone dell’esistenza, diventa ricettacolo immondo, nemico; il soggetto affetto da anoressia s’illude di averne completo controllo, dando vita alla danza spasmodica e ossessiva del continuo soppesare, misurare, delimitare, finché non sopravvengono la perdita dei denti, dei capelli, del ciclo mestruale, l’osteoporosi precoce e, non ultima, l’assenza di desiderio sessuale. Il soggetto anoressico vive il proprio corpo al di là del principio del piacere, poiché il suo orizzonte si limita al godimento esperito tramite la privazione del cibo: «nel digiuno anoressico il corpo non è semplicemente cancellato, ma god[e] dell’assenza dell’oggetto come se fosse la dimensione più piena dell’oggetto. (…) Esiste piuttosto un godimento del vuoto che pare più forte, o, più precisamente, per utilizzare un’espressione freudiana, “più pulsionale” di quello della sazietà.»[5] Il godimento è in questo caso per il soggetto limitato alla dimensione edonistico-naturalistica, ma in virtù dell’essere godimento del vuoto appare interconnesso ad un’autentica pulsione di morte, esattamente congruente con il suo opposto, in una totale sovrapposizione tra Eros e Thanatos. «In effetti, come la clinica psicoanalitica ci insegna, il corpo umano non è il corpo naturale che risponde alla legge edonistica del principio di piacere, non è il corpo che persegue innanzitutto il suo bene.»[6]

La dialettica del corpo che si svuota si consuma interamente nel raggiungimento di una perfezione estetica immaginaria; non è trascendentale né mistica, poiché non aspira ad ideali di salvezza comunitari o individuali né li considera nel suo percorso; «l’etica è qui al servizio integrale dell’estetica, è cancellata dall’imperativo estetico che condiziona socialmente l’immagine ideale del corpo magro»[7], immagine che si tramuta in una fascinazione mortifera.[8] Lo scorporamento dalla fisicità è desiderato unicamente in funzione dell’ideale di una magrezza scheletrica e asessuata, nella quale gli attributi fisici si perdono quasi fossero appendici da piallare, indesiderate, sintomo sensuale di un corpo che smette di riconoscere la propria attività ormonale per dedicarsi unicamente al raggiungimento della perfezione presunta. Il Niente diviene nutrimento per eccellenza, elemento separatore fra il soggetto e gli altri, che si coniuga nell’assenza d’appetito quale metafora dell’assenza del bisogno dell’altro. Pur tuttavia, quest’assenza di bisogno paradossalmente fa da pendant alla disperata ricerca di attenzione da parte dell’altro, degli altri, di tutto il resto del mondo; il corpo anoressico seguita a urlare il suo ossimorico bisogno del Niente con una veemenza fatta di ossa e di bocche affamate, che in qualche modo implorano d’essere condotte allo strato pieno dell’esistenza, lì dove l’amore negato possa essere solo un ricordo: “Dimagrendo, assommando chili perduti, mi concedevo il permesso di farmi nutrire, di essere curata e riconosciuta.”[9]

Per chi non vive all’interno della dimensione mentale del soggetto anoressico, è molto difficile – se non impensabile – la comprensione piena del circolo vizioso che ne è alla base: il disagio provocato dall’indossare la propria pelle quotidianamente giunge a condizionare ogni singolo istante della vita vissuta (?), generando un circolo vizioso di riscatto, patimento e vergogna per la propria condizione dal quale è estremamente arduo sciogliere i legacci. In prima istanza, lo svuotamento fisico genera uno stato di eccitazione per l’obiettivo conseguito pari a quello provato dal tossicodipendente dopo aver consumato la dose abituale: se lo si vuole provare ancora, ovviamente si dovrà perseguire nell’intento, accettandone i rischi. A ciò si aggiunge, in numerosi casi, una sfrenata iperattività fisica, per raggiungere più velocemente i risultati desiderati. In seconda istanza, la discrepanza tra immagine interna ideale ed effettiva sembianza fisica genera un senso di ripudio permanente, un imperativo psicologico a pressione infinita, alimentato in dimensioni sovraumane dallo stesso impianto sociale fallocratico, per il quale il monito dell’apparenza scavalca la verità del noumeno. In terza istanza, proprio in virtù di una pressione psicologica smodata, all’eccitazione dei primi tempi sopraggiunge col tempo la consapevolezza del male, parallelamente all’avanzare delle anomalie fisiologiche, un male che divora e logora, ma dal quale non ci si può separare perché condizione prima dell’essere al mondo. Un male che si vive con vergogna, che rosicchia le giornate lembo dopo lembo, ma dal quale non ci si può esimere poiché il corpo che ingrassa non è contemplato come possibilità dell’essente, «se il corpo si riempie il soggetto viene  espulso dal proprio corpo».[10]

Il corpo pieno, il corpo che si riempie è un corpo sudicio, che non preserva il suo vuoto, che non difende il proprio diritto alle ossa. Recalcati identifica nell’osso e nella bocca i punti focali dell’argomentazione sul corpo anoressico, facendo del primo elemento lo ‘strumento’ del quale il soggetto ha bisogno per tenersi avvinghiato alla propria identità, mentre attribuisce al secondo la concentrazione dell’interesse in base al desiderio del Niente (o del Tutto, nel caso dei bulimici) relativamente al rapporto col cibo. Per il soggetto anoressico, l’ossatura diviene l’impalcatura del vivere, ciò che permette di ritrovare il baricentro; l’anca che sporge, che vince la carne; la costola che si protende; la clavicola che s’affaccia a salutare lo sterno: senza il ritrovamento allo specchio di queste parti il soggetto è perduto, come se l’identità dipendesse dall’impianto scheletrico emergente. «L’osso funziona qui come un centro di gravità, come qualcosa che permette al soggetto di riallacciare il corpo ad un’immagine ideale possibile, di mantenerlo prossimo a se stesso.»[11] Di più: la celebrazione dell’osso rientra nell’ottica di un vero e proprio investimento narcisistico, in base al quale l’esperienza della sporgenza tramite il tatto e la vista diviene indispensabile, al punto da farne oggetto di celebrazione. In qualche modo, le ossa sono la trama, le parti costituenti, l’indice e l’esegesi di un racconto drammatico, al quale non è detto che sia apposta necessariamente la parola Fine.


3.2 Anna Fabroni: Costole. La fotografia come terapia.

Il progetto fotografico di Anna Fabroni (1976) rientra all’interno di un delicato percorso di ricostruzione dell’immagine identitaria fortemente compromessa dal disagio dell’anoressia. Lo si potrebbe chiamare, in senso lato, autoritratto terapeutico, per quanto da questo stesso concetto si distacchi,  non essendo possibile ritenerlo un atto intenzionale, piuttosto un’estrema conseguenza.
La serie di scatti da cui prende piede Costole, infatti, copre un periodo temporale esteso, di circa quattro anni (2001 – 2004), durante i quali la giovane donna sceglie la fotografia – il terzo occhio – per catturare immagini nelle quali riconoscersi, per recuperare evidentemente il senso di un’epidermide lasciata all’abbandono. Quelle stesse costole del titolo, insieme ad anche, spalle, vertebre, accompagnate da un seno acerbo, quasi non fosse mai cresciuto, ci riconsegnano alla vista un corpo in frammenti, privo di volto, del quale non sarebbe possibile reperire l’identità, se solo non sapessimo. La Fabroni sceglie il medium fotografico, ovvero un mezzo di interpretazione del reale, per pervenire al reale stesso, alla sua immagine così com’è esperita dall’altro; sceglie la natura indicale della traccia come testimonianza dell’incontestabile per guardarsi dentro. Estroflessione propedeutica all’introiezione, «come se ci fosse bisogno di rivivere e rivedere il proprio corpo in frammenti, come se ci fosse bisogno di ricominciare da capo quel processo di identificazione con la propria immagine allo specchio».[12] Se, come scrive Susan Sontag, «fotografare significa (…) appropriarsi della cosa che si fotografa»[13] , a maggior ragione lo si può affermare a proposito del lavoro sul corpo portato avanti in questa serie di scatti, che appare più come lo scatto limite di una volontà desiderosa di scavalcare la pressione psicologica del male.

Anna Fabroni, Costole, 2001 - 2004

Foto che sono un racconto, ma al tempo stesso un monito; mostrano ciò che rimane di una donna ai minimi termini, rifatta a sua immagine e non somiglianza. Eppure sempre una donna, costola dell’uomo, cellula del tessuto epiteliale mondano; così come queste immagini sono costole, appendici della sua carne, figlie di uno stesso interminabile travaglio. Tramite queste accetta di vedersi come gli altri la vedono, non sceglie di rivelarsi nella fierezza di chi persegue un obiettivo categorico; il dolore che ne traspare, il senso di soffocamento che ne emergono sono palpabili. Si ha la sensazione di accedere direttamente all’intimità di un corpo violato, disperso, martoriato sotto il giogo del desiderio del Niente, quasi fossimo testimoni privilegiati, novelli S. Tommaso invitati a toccare la piaga. Ecco: questa è carne della tua carne, questa è tua figlia, tua moglie, tua sorella, questa è la femmina del tuo costato, anello delle tue vertebre, un passerotto senz’ali; e tu che ne cogli il riflesso memorizzane l’eco, fa’ che il suo corpo da gabbia diventi un’agape, sigilla e certifica la sua esistenza, la sua non-invisibilità. Anche questo è tessuto vivo, anche questa corteccia desidera; i suoi specchi, le sue finestre sono anche nelle nostre case.

3.3  Perdita del baricentro: l’immagine e il modello.

Gli esperti concordano nell’attribuire ai disturbi alimentari un’origine socio-culturale, perlopiù associata agli stili di vita occidentali e ai modelli loro connessi; anche nel caso clinico in senso stretto, questa contingenza, questa secolarizzazione non può passare in secondo piano. L’anoressia in quanto patologia certificata non è sempre esistita, per quanto sia possibile reperire delle similarità a livello esecutivo – e non effettuale – nei casi di digiuno propedeutico all’ascesi o congiunto al misticismo proprio della tradizione religiosa o delle popolazioni indigene; a livello patologico, come abbiamo precedentemente spiegato, l’inanizione si presenta slegata da qualsiasi intenzione di tipo trascendentale. È prettamente un sacrificio all’immagine, una sottomissione all’idolo della bellezza filiforme, un ripiegamento del corpo su se stesso nella speranza di raggiungere una deleteria forma di perfezione. Sicuramente, una formula che cova al suo interno l’elemento di distruzione. «People spend a lot of time not being themselves. Conditioned by today’s beauty idol (…), many women see and experience their appearance as inadequate and therefore in conflict with the idol». Razionalmente, la donna è consapevole di coltivare l’aspirazione all’ideale (come metà contrapposta del reale), ma l’idolo, per sua natura, è un prodotto costruito, una creazione apposita, un modello culturale spesso talmente distante dalla realtà che il voler prendere a tutti i costi le sue sembianze genera un gap a potenziale illimitato. Eppure «the beauty idol, like any idol, garners ardent devotion»[14], devozione stimolata e riverberata dall’industria della moda e dal mito del benessere, che da questo principio base hanno innalzato il tempio di una nuova religione.
Per quanto non sia possibile ricondurre il fenomeno ad una precisa data d’inizio, si potrebbe senza dubbio reperire uno scarto sostanziale nel passaggio di staffetta (tra gli anni Cinquanta e Sessanta) dal canone della pin-up a quello inaugurato da Twiggy ed Edie Sedgwick, musa di Warhol. Se, prima del loro arrivo, l’ideale incontrastato e salutare riposava su una pelle morbida e ben tornita, su fianchi ammiccanti e seni prosperosi, con l’atterraggio delle modelle inglesi sulle scene internazionali si compie il cambio di programma: non v’è più nulla della bellezza di Bettie Page o di Mae West in quei visi emaciati, nei corpi ossuti e filiformi, nel colorito pallido che le contraddistinguono. Lo slittamento avviene tra la giunone e lo spettro, tra la colonna dorica e il filo di rame,  in un’ottica che investe a schermo totale non solo l’industria dei media e il mondo della moda, ma la concezione stessa della beltà nel mondo occidentale e, di conseguenza, anche le modalità dell’uomo di guardare alla donna. Gli abiti proposti si adagiano a queste nuove fisicità come seconda pelle, la magrezza diviene un imperativo categorico; la solarità sensuale delle icone della prima metà del Novecento si affievolisce fino a scomparire, stemperandosi nell’androginia naïve delle nuove muse, che alla presenza sembrano anteporre l’assenza - assenza di un corpo sensuale e sessuato, assenza d’espressione, assenza di femminilità se non nel make up e nei vestiti, quasi a confermare il loro status di marchio di fabbrica -.

Immagini di donne spettro rimbalzano quotidianamente dallo schermo alla carta, in una danza vorticosa; lo spazio che una volta era riservato alle sfilate di moda è diventato uno spazio diffuso, le dinamiche di marketing entro le quali s’inscrive la pubblicizzazione del corpo (e attraverso il corpo) condizionano il modo stesso di guardare all’individuo.


Jane Russell

Sotto: Edgie Sedgwick 


In un panorama nel quale tutto è circoscritto all’essere brand, inseriti nell’immenso circolare delle merci, il sovraffollamento mediale di presenze anoressiche ha prodotto un appiattimento della concezione della patologia ad uno stato quasi simile alla normalità, se non addirittura ideale, risucchiando l’argomento nel parler pour parler da conversazione da bar. La totale assuefazione alle immagini - che dall’alto dell’indicalità che le contraddistingue sono pur sempre rappresentazioni, interpretazioni  della realtà – anche in questo caso aggiunge legna alla brace entro la quale riposa la “banalità del male”, quella che pone sullo stesso piano la carne e il suo contrario, l’assassinio e la quotidianità; non stupisce dunque riscontrare che gli spazi riservati alla trattazione dell’argomento siano esigui e mal distribuiti. Al di là della documentazione scientifica, riservata agli addetti al settore, il caso giunge all’orecchio dell’uomo comune attraverso canali di bassa qualità ed alta risonanza – dal talk show alla rivista settimanale – che finiscono per agevolare la mancata sensibilizzazione alla malattia, messa così in vetrina tra un servizio di cronaca ed uno di gossip.
Scopo dell’arte e della fotografia è, a nostro parere, ancora una volta educare attraverso una diffusione calibrata delle immagini: un esempio vincente è stato offerto da Oliviero Toscani con la famosa campagna pubblicitaria per il marchio “Nolita” realizzata nel 2007 e passata agli onori della cronaca non tanto per la rilevanza a livello sociale, quanto per lo scandalo suscitato.

Protagonista della gigantografia, affissa a Milano per un breve periodo di tempo, la modella francese Isabelle Caro, da sempre testimonial consapevole della battaglia all’anoressia, sebbene proprio a causa della debilitazione fisica sia venuta a mancare alla fine del 2010, per complicazioni cardiache. La Caro, per anni il volto del Male incarnato in un corpicino di appena 31 chili, non è riuscita a vincere la grande guerra contro il demone della fame, lasciandoci però l’eco portentoso della sua immagine rimbalzata di canale in canale su tutti i media (eccetto quelli italiani, che tra un patetismo e l’altro hanno dato poco rilievo alla notizia).

Oliviero Toscani, campagna pubblicitaria Nolita, 2007

Direttore d’orchestra dell’iniziativa, quel Toscani che ha sempre fatto della fotografia un mezzo di comunicazione privilegiato, ad alto tasso di provocazione, caustico come la migliore tradizione pubblicitaria anglosassone. Com’è scontato che sia (e nella migliore tradizione di Toscani), la campagna in Italia ha destato enorme scalpore, dividendo le fazioni contrarie in una falda contrassegnata dal peggiore perbenismo – per la quale esporre in prima pagina un tabù terrificante come quello dell’anoressia è scelta riprovevole e di cattivo gusto – e in un’altra preoccupata che l’immagine potesse contribuire allo spirito di emulazione da parte delle adolescenti.  Evitando di soffermarci sulla prima fascia di contestazione, che trova da sé il commento appropriato, è opportuno chiedersi se realmente l’effigie della Caro possa spingere ad atteggiamenti imitatori da parte del pubblico in via di formazione, dall’alto di quel viso spaventato e spettrale, più simile a un cadavere che ad un essere umano. In un impianto culturale che costantemente rimpinza l’auditorio con l’idea che la magrezza sia l’ideale da conseguire per avere un posto nella società, imbellettando il concetto nella maniera più accattivante possibile, c’è da chiedersi quanta ipocrisia sia celata dietro questo discorso. Piuttosto, è il caso di fare uno scarto ulteriore e domandarsi per quale ragione, dopo i primi fuochi, l’avvenimento sia passato rapidamente nel dimenticatoio, come nei migliori casi di rimozione freudiana applicata al mediale: se realmente non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, parimenti non c’è male immondo quanto quello che si tenta disperatamente di nascondere - o, nei casi peggiori, di rendere piacente in quanto base di un intero modello culturale -.
Compito dell’arte, e della fotografia con essa in guisa di “sorella putativa”, è ancora una volta quello di educare al riconoscimento del demone, un demone che in questo caso nasce in seno agli inferni privati, quotidiani; un morbo che s’annida dietro la porta di casa, fra le pareti del bagno o della cucina, fra le mura domestiche quanto in strada e sul posto di lavoro. Una patologia che uccide in silenzio, senza il clamore dei media, tra una pagina e l’altra di blog pro-ana (com’è “affettuosamente” chiamata nei gruppi di “sostegno” online: solo tra il 2006 e il 2008 il numero dei siti è aumentato del 470%). Quando la malattia diventa un’amica con cui condividere le proprie giornate, si è già oltrepassato il confine del clinico, per approdare ai livelli del mostruoso.
Toscani ci lascia in consegna il ritratto impietoso di una degenerazione culturale, scevro dall’edulcorazione a cui siamo abituati. L’elemento perturbante buca la superficie in maniera improvvisa, rimettendoci alla cognizione delle cose che accadono, nonostante siano sepolte da una cortina di silenzio, quello stesso silenzio che in misura esponenziale offre la propria complicità al Male.

È davvero possibile parlare di cattivo gusto davanti a un caso come questo? E nel caso in cui la risposta sia positiva, dovremmo ammettere che esista un cattivo gusto del dolore? O che – piuttosto – sia la sofferenza  ad essere considerata un elemento kitsch?

(Ironia?)

L’educazione al rispetto del corpo, proprio e altrui, non è pensabile senza l’educazione al rispetto del dolore. Ciò che permette agli uomini del Ventunesimo Secolo di riconoscere l’olocausto è l’approccio diretto all’avvenimento attraverso le testimonianze vive e pulsanti, riservando loro peso, tempo e spazio adeguati, per fare in modo che l’errore non si perda nelle trame della storia una volta venuti a mancare gli ultimi baluardi direttamente connessi alla tragedia. Se il silenzio arriva subdolo a ricoprire il senso primo degli accadimenti, nega in un futuro prossimo la possibilità di discernere la giustezza dall’errore, appiattendo l’insieme al medesimo piano d’osservazione. Tra il non vedere e il non voler vedere intercorre un abisso pericoloso.

Nel momento in cui è la società stessa a promuovere l’indispensabilità del tacere condiviso, l’esposizione all’abisso è prossima e inevitabile. Riconoscere il germe all’interno di questa dinamica segna già una differenza cicatriziale nel tessuto uniforme delle convenzioni; l’iniziativa di Toscani è proprio quella ferita su di un corpo intonso.

Oggi, la miseria e la violenza divengono, attraverso le immagini, un leitmotiv pubblicitario: Oliviero Toscani reintegra così nella moda il sesso e l’AIDS, la guerra e la morte. E perché non dovrebbe farlo (la pubblicità fatta alla felicità non è meno oscena di quella fatta alla sventura)? Ma a una condizione: quella di mostrare la violenza della pubblicità stessa, la violenza della moda, la violenza del medium. Cosa di cui i pubblicitari sono perfettamente incapaci.[15]

Il paradosso a cui Baudrillard fa riferimento è direttamente collegato all’ipervalutazione di un’immagine svuotata ormai del referente poiché assolutamente autoreferenziale, apoteosi dell’immagine per l’immagine, che parla solo a se stessa (e solo di sé); un meccanismo che il filosofo scopre applicato a tutti gli strati del mediale e che ha come risultato una totale svalutazione del grado di significanza come estrema conseguenza della troppa significanza, in ogni direzione. Per invertire la tendenza, per fare in modo che l’immagine torni ad essere un ponte, è necessario che essa stessa ricominci ad imporsi tramite i codici che le sono propri in quanto “traccia” e rappresentazione, cessando di «violentare il reale per effrazione»[16] attraverso la proposta di una distorsione che non corrisponde alla realtà ma come tale viene spacciata. La fotografia di moda si inserisce in questo sfasamento placida e congruente come acqua nell’ansa, rendendo imperativi dei modelli distanti anni luce dalla quotidianità e rimandando così a quell’idolatria già citata, sostanzialmente inattivabile sul piano del reale. Il rischio maggiore è che l’esistenza stessa diventi null’altro che un rimando al simulacro, apparenza dell’apparenza, fatta di corpi vuoti; epidermide pret-à-porter che fa dell’individuo nient’altro che un ready made fra innumerevoli ready made, un cyborg alla moda, una “musa inquietante”.

Il correlativo visivo si può identificare felicemente (?) in quella VB47 proposta da Vanessa Beecroft nel 2001, performance nella quale un gruppo nutrito di modelle staziona indolente in una sala bianchissima, tutte indossando l’identica maschera priva di espressione, più simili a manichini che ad esseri umani. Corpi statuari, perfetti – se ci si attiene agli standard proposti dall’industria dell’immagine -, ma difficilmente riconoscibili, privi di qualsivoglia variazione personale, esistenti unicamente in base al loro essere aderenti al denominatore. Merce fra le merci, di buona qualità.

Vanessa Beecroft, VB47, 2001


Se il sonno della ragione genera mostri, è anche vero che l’aderenza all’irreale ricostruito dall’imperativo della moda produce una spersonalizzazione totale, appiattendo la varietà dei segni fino a provocarne la totale scomparsa. O peggio: riassorbito dall’ideale dell’immagine, è l’individuo stesso a pagarne le conseguenze, alienandosi nella sua trappola fino a scomparire. «The diminishment of human being into a merciless idol of perfection dehumanizes beauty. Dehumanized, beauty becomes our demon.»[17]

L’unico stratagemma possibile per un recupero del senso passa per la riabilitazione del punctum, sostanziale e non disseminato, né semplicemente in guisa di espediente tecnico per la cattura dello sguardo: l’immagine che sa farsi ferita opera uno squarcio nell’assoggettamento al simulacro. In questo, l’operazione di Toscani sembra aver colto nel segno.


3.4  Jenny Saville: La brutalità della differenza.

Nel roseo paradigma della neutralità, può anche capitare di imbattersi in presenza di personalità fuori dal comune, che riescono – attraverso il ribaltamento dei codici dell’arte – a segnare una scarica differenziale nel flusso indistinto dell’energia rappresentativa. Lì dove tutto sembra sospeso in un godimento estetico idilliaco, finalizzato al distoglimento dalla crudeltà dell’evidente, al divertissement, il ritorno ad uno sguardo impietoso sul reale non è solamente auspicabile ma assolutamente necessario.

Se esiste un grande merito attribuibile alla Young British Art, al di là delle numerose accuse dell’essere una schiera di artisti volta all’utile, questo è sicuramente da rintracciare nella capacità di fare dell’informe e del grottesco il soggetto privilegiato delle esperienze contemporanee, con un’intensità che mancava dalle scene mondiali da tempo immemore. Nato in Inghilterra negli anni Ottanta e affermatosi definitivamente nel decennio successivo sotto la benedizione del gallerista Saatchi, si tratta di un gruppo disomogeneo che vede all’interno della sua rosa nomi oramai imprescindibili quali Damien Hirst, Tracey Emin e i Chapman Bros (per dirne alcuni), dotati ognuno di un proprio linguaggio autonomo e perfettamente riconoscibile, per quanto accomunati da un alto senso critico della realtà. Lo scopo principale delle loro opere, diversissime anche per le tecniche utilizzate, è quello di provocare uno shock autentico nello spettatore per quanto mai scontato, che racconti di tematiche scomode e tabù inaffrontabili (la morte, l’olocausto, la deformità fisica, il sesso) in maniera iperbolica ma affatto edulcorata. Ad una straordinaria capacità creativa, capace di spaziare dalla scultura all’installazione, dalle miniature all’olio su tela, corrisponde la ferrea volontà di perseguire l’intento primo, ovvero il risveglio delle menti intorpidite dall’ordinario fluire delle cose così come proposto e impacchettato dalla società occidentale.

In particolare, per quanto riguarda l’uso e l’abuso dell’immagine femminile, ci sembra il caso di porre il focus su una delle artiste del movimento YBA che al meglio ha saputo rappresentare tramite tele e pennelli la distorsione cosciente ad essa applicata. Ci riferiamo a Jenny Saville (1970), nata a Cambridge e attiva tra Londra, New York e Palermo dai primi anni Novanta.
I suoi lavori, tecnicamente molto vicini alla migliore tradizione espressionistica mondiale (da Kirchner a Lucian Freud e Bacon, al quale spesso è stata paragonata), partono dalla scelta di dedicarsi a tematiche molto vicine al femminismo, in primis il riscatto dalla mercificazione del corpo, per poi investire in senso lato l’intero panorama della carne, cruda e cruenta, umana e animale, dunque oscena. La brutalità dei contenuti e della pennellata – densa, pastosa, violenta – fanno dei suoi quadri una parentesi priva di scrupoli sulla manipolazione del corpo, allineandosi su un asse che procede dal frammento all’intero in un perturbante valzer, nel quale soggetti comunemente considerati di scarto (non solo dal mondo dell’arte) acquistano pari dignità e veemenza. Così è possibile imbattersi, di tela in tela, in corpi tumefatti, donne obese al limite dell’implosione, transgender, corpi da morgues affiancati a busti sventrati di carne animale, isolati in una dimensione che appartiene loro completamente, priva di qualsiasi connotazione decorativa, senza spazio né tempo se non gli stessi spazi e gli stessi tempi della sola, disperata carne.


Jenny Saville, Shift, 1996-1997, olio su tela

Le donne di Jenny Saville sono simulacri a metà strada tra la santità e il martirio, corpi il cui volto (quando rappresentato) si perde come un contorno che distrae dalla portata, a meno che non sia esso stesso il piatto principale. È fondamentale considerare quanto proprio le pale d’altare visionate in Italia siano state imprescindibili nella sua crescita formativa, contribuendo non solo all’inserimento di un nuovo indirizzo all’interno delle rappresentazioni, sempre più spesso organizzate in forma di trittici, bensì modificando anche la concezione della sofferenza e del suo tramutarsi in immagine, sospesa a metà strada tra l’iconografia religiosa e la crudeltà post-contemporanea.
Questa carne non desidera altro che urlare il suo diritto all’esistenza, in un percorso quasi analogo (seppur con le dovute differenze) a quello intrapreso da Anna Fabroni con l’autoritratto frammentato; in un complesso stratificato in cui è l’oligarchia a decidere per l’autodeterminazione dei corpi, nascondendosi dietro la molteplicità di scelta d’acquisto in veste di garante della democrazia, il corpo a disagio ha passi più lunghi da compiere per giungere alla superficie. L’obesità, correlativo patologico dell’anoressia in senso contrario, ci viene mostrata dalla Saville così lucidamente da risultare terrorifica, essendo figlia di quella stessa riluttanza che la società ci ha in qualche modo costretti a provare in quanto base della spinta all’ideale; eppure – sembra dirci l’artista – anche queste sono donne, anche queste occupano a diritto un posto nel mondo, così come il loro opposto. Così come va riconosciuto che l’intensivo ricorso alla chirurgia stia finendo per generare popolazioni di cyborg comunemente accettate nella loro effettiva mostruosità, evidenziando il corto circuito sostanziale tra l’accettazione dell’artificiale a dispetto del naturale che spaventa, che inibisce poiché lontano dall’immagine delle immagini che come un Leviatano ci governa. La scelta del grande formato non è affatto casuale: la Saville ci costringe a guardare ciò che non vorremmo vedere, ci sottomette alla nudità dei suoi soggetti senza offrirci possibilità di scampo. In molti dipinti, il volto rappresentato non è altro che il suo (come nel caso di Plan) apposto a corpi estranei, come a rimarcare la volontà di giocare un ruolo da protagonista nella sfida al femminile: il suo non è uno sguardo asettico al problema, è una presa di coscienza, come se quelle donne non fossero entità estranee e il suo compito non fosse solo quello di frugare nelle loro identità.  «I want to be the person. Because women have been so involved in being the subject-object, it's quite important to take that on board and not be just the person looking»[18].





Plan, 1993, olio su tela

Attraverso il suo mescolarsi al soggetto, è quest’ultimo a prendere vita, a comunicare oltre la superficie, a raccontarci l’innaturalità della sottomissione alle logiche dell’appetito negato, delle diete, dell’entrare a tutti i costi in una taglia piuttosto che in un’altra; attraverso l’esposizione impietosa della loro differenza, i personaggi rappresentati ottengono un riscatto completo, scrutando l’osservatore dall’alto dell’immensa tela, ponendosi – per una volta – in veste di giudici e non di giudicati. I segni-traccia propedeutici alla liposuzione diventano una cartina geografica, le cosce straripanti a penzoloni dallo sgabello ricordano le Veneri Preistoriche, la carne non è altro che carne e come tale dichiara il proprio diritto al mostrarsi, senza pretesa alcuna d’erotismo.
La donna, da elemento decorativo, torna ad essere soggetto e contenuto: il nocciolo serio della questione, sembra dirci la Saville, non è tanto l’esposizione del corpo femminile in sé, quanto l’esposizione finalizzata necessariamente al soddisfacimento del desiderio maschile. Questa messa in vetrina implica una sottomissione totale all’adeguamento agli standard, ormai talmente radicata da risultare quasi impossibile da riconoscere e scremare: non solo le abitudini alimentari, ma gli atteggiamenti, la postura, il linguaggio femminili devono soddisfare le richieste del panopticon entro i quali si svolgono.

Il corpo della donna appartiene più alla società di quanto possa appartenere alla donna stessa; è un’immensa, fertile terra di nessuno, coltivata senza possibilità di riposo, arata e ricostruita a somiglianza del canone imperante. Il paradosso, al di là dei luoghi comuni, è verificare quanto proprio le donne contribuiscano a reiterare i meccanismi di controllo maschilisti, a fare in modo che siano perennemente attuabili in una dimensione entro la quale non v’è spazio per la differenza, tantomeno per la sofferenza. Lo scarto compiuto dalla Saville ci appare quasi salvifico: un immenso, gigantesco “Io Esisto” scardinato da qualsiasi logica della bellezza convenzionale.

La voce che non trova strada muore nella gola; anche essere donne è una conquista, quando si sceglie di elevarsi dallo status di figurante a quello di presenza attiva. Esistente. Convalidata dal coraggio di indossare con dignità le proprie imperfezioni.
La donna non è un corredo all’ apparato uterino, ma è doveroso che lo conosca e lo rispetti in quanto elemento fondante della propria, meravigliosa differenza.

* testo tratto da: 
Valentina Soranna, IL SENTIRE EPIDERMICO - Excursus interdisciplinare sul corpo-linguaggio: contributo dell’immagine alla formazione identitaria, tesi di laurea specialistica in Psicologia dell'Arte, Dip. Arti Visive, Bologna, 2011.





[1] Conosciuta anche come Disturbo di Dismorfismo Corporeo. “Il termine dismorfofobia e le relative patologie soggiacenti, sono state descritte per la prima volta dal medico e psichiatra italiano Enrico Morselli nella sua opera del 1891 Sulla dismorfofobia e sulla tafofobia“ da http://it.wikipedia.org/wiki/Dismorfofobia#cite_note-1 .
[2] Da http://www.ipsico.org/dismorfofobia.htm, pagina web dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e cognitiva.
[3] M. Merleau Ponty, Il corpo vissuto, op. cit., p.127 (corsivo nostro).
[4] Testimonianza raccolta da H. Bruch, La Gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 20.
[5] M. Recalcati, Fame, sazietà e angoscia, da Kainos, rivista online, n°7, p. 2.
[6] M. Recalcati, La bocca e le ossa, documento reperibile alla pagina web http://www.scribd.com/doc/51166908/recalcati-la-bocca-e-le-ossa, p. 1.
[7] Ibid., p. 2.
[8] Ibid., p. 3.
[9] Testimonianza da H. Bruch, La gabbia d’oro, op. cit., p. 21.
[10] Recalcati, La bocca e le ossa, op.cit., p. 5.
[11] Ibid, p. 6.
[12] S. Ferrari, Il corpo adolescente, Il corpo adolescente. Percorsi interdisciplinari tra arte e psicologia, Bologna, CLUEB, 2007, p. 28.
[13] S. Sontag, Sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1992, p. 4. (ristampa it.).
[14] J. Frueh, Beauty loves company, in: Bodies in the making: transgressions and transformations, a cura di N. N. Chen e Helene Moglen, North Atlantic Books, 2007 [distribuz. americana presso New Pacific Press, CA, 2006], p. 21.
[15] J. Baudrillard, Il patto di lucidità o l’intelligenza del male, Milano, Cortina Editore, 2004.
[16] Ibid.
[17] J. Frueh, Beauty loves company, in: Bodies in the making, op. cit., p. 23.
[18] Intervista di David Sylvester a J. Saville: Areas of Flesh, pubblicata in The Independent, 20 gennaio 1994, reperibile al sito web http://www.oneonta.edu/faculty/farberas/arth/arth200/Body/saville.html .