martedì 31 gennaio 2012

Ritorno all’origine: del desiderio e dell’afflizione.*


Un po’ d’amore, non chiedevo altro, solo un po’ d’amore. Una volta al giorno, due volte al giorno, cinquant’anni d’amore due volte al giorno, come quelli che fanno la cura di carne di cavallo.(1)

Se una declinazione contemporanea del corpo esiste, scavalcando l’abusata etichettatura del post- e le conseguenti sottocategorie, essa appare senza ombra di dubbio traballante, sospesa tra due estremi contrapposti, echi dell’antica battaglia senza vincitori né vinti tra eros e thanatos. L’odierna corteccia – violata, martoriata, in quiescenza, disseminata, sparsa – si trova suo malgrado in una posizione di non poco imbarazzo, contesa fra la presenza e l’assenza, inevitabilmente destinata a diventare terra di nessuno. Principalmente, ci pare di riconoscere a ragione un impoverimento del lessico a lei destinato, fenomeno che sicuramente non corrisponde alla sovraesposizione a cui i corpi sono quotidianamente soggetti; pare di sentire di rimando gli strascichi delle parole di Baudrillard, quando, riferendosi alla società del plusvalore, in Design e Dasein afferma: «[Non] è più possibile sperare di attingere all’esistenza nel e attraverso lo sguardo dell’altro, poiché non vi è più dialettica dell’identità. Tutto è ormai una somma di apparire e di apparire soltanto, senza troppa preoccupazione per l’essere».(2)
Muovendo in avanti dalla nefasta premessa – dacché bisogna sempre possedere una dose considerevole di coraggio – proveremo in questa sede a ripercorrere il processo inverso, ovvero dall’esposizione epidermica significante all’essenza; dalla costruzione di quella stessa significanza - che inevitabilmente necessita dell’altro – al significato intrinseco, frutto di un’accurata eviscerazione del superfluo. Se un dialogo del corpo è ancora possibile, tenteremo di stimolare la riflessione sul linguaggio attraverso il quale questo si declina in campo artistico, essendo l’arte da sempre cassa di risonanza privilegiata dei mutamenti sociologici in atto.


1.1  Debora Barnaba: Femminile Plurale.

La scelta di partire da un’artista giovanissima come Debora nasce in seguito ad un servizio fotografico a lei dedicato sul numero di luglio della rivista Il Fotografo, servizio che ha dato la possibilità all’artista di acquistare maggiore visibilità sul territorio nazionale.
Per quanto i codici stilistici da lei utilizzati possano sembrare a primo impatto elementari, uno sguardo attento al linguaggio dell’immagine ha lasciato scaturire numerosi interrogativi relativi alla natura dell’autoritratto fotografico, argomento al quale ci siamo dedicati già in occasione passata con l’incontro Azioni Sentimentali – Autoritratti di Debora Barnaba in data 24 novembre 2010 presso il Dipartimento di Arti Visive di Bologna.
Prendendo piede da uno sfondo essenzialmente asettico, la fisicità di Debora emerge, delicata e imperante, senza mezzi termini. Ciò che colpisce maggiormente, nei suoi scatti, è la capacità di quel corpo acerbo di sfondare la bidimensionalità del supporto per approdare alla percezione di chi osserva; il suo emergere è un “qui ed ora”, il suo monito è racchiuso in un “guardami, non perché sono bella, ma perché sono io, e quello che vedi mi appartiene”. All’origine dello scatto vi è un bisogno pulsante, quasi fisico e fisiologico, di raccontarsi, di vedersi dunque al di fuori di sé per ritrovarsi. Fotografia che è specchio e complice, immagine spesso inadeguata e incongruente, ma vera; delicata nella composizione, ma vigorosa nell’intento, anche quando ci racconta di ferite auto-inflitte, o quando ci mostra smorfie e torsioni innaturali della postura, così vicina alle sperimentazioni artistiche della migliore Body Art, eppure così lontana dal condividerne gli intenti politici.
Il corpo di Debora è un corpo-in-divenire, al contempo un gioco quanto un giogo, una gabbia quanto una meravigliosa macchina organica, fatta di ingranaggi flessibili e legamenti. Epidermide che si svela all’occhio impietoso del fruitore non in cerca di adulazione –come in molti erroneamente hanno mosso obiezione-, ma in quanto proposta di verità nuda. Posto il fatto che nell’osservare una fotografia c’è sempre il coinvolgimento di una dose più o meno accentuata di voyeurismo spicciolo, ci si permetta di sottolineare che l’interesse cosciente ad uno scatto di Debora Barnaba non può essere assimilato a quello provocato da un nudo in copertina su Vogue; la motivazione principale è data dal messaggio, da ciò che l’immagine intende comunicare, dalla presenza di un punctum, macula (3) che ferisce oltremodo, quello squarcio nella superficialità del patinato. Il meccanismo di riappropriazione della corporeità - corporeità in guisa di differenza - passa attraverso la manifestazione di gesti simbolici come il bacio e lo schiaffo, attraverso l’allusione all’autoerotismo, al desiderio di sé, che inevitabilmente concorre come parte attiva alla formazione di un’identità equilibrata, e dunque ad un corretto approccio col mondo esterno. Si è di fronte a una storia d’amore ed odio con se stessi, esternata per poterla meglio comprendere e interiorizzare, per affrontare la vergogna dei liquidi biologici femminili, che eppure denotano appartenenza alla differenza in una società prevalentemente fallocratica.

Io non ho importanza, l'unica cosa che conta è l'immagine, mentre lavoro posso farmi qualunque cosa che non sento dolore, non sento nulla se non il piacere, il piacere di essere me stessa, libera, sciolta, aperta, do me stessa, al mondo, a chi mi vede, mi regalo. (Debora Barnaba)

Il linguaggio stilistico di Debora parte da elementi di facile accesso per aprirsi all’universale femminile cosciente, perviene alla consapevolezza della fragilità dell’essente da vivere non come un limite, bensì come né più né meno che una caratteristica determinante. Scevro della presunzione di assurgere a monito sociale, l’operato della giovane fotografa si configura come un personalissimo afflato alla vita, sostenuto dal desiderio di ritrovarsi e riconoscersi nelle testimonianze pulsanti scattate dalle sue stesse appendici, dalla mano-strumento. Un tributo al terzo occhio, certo, ma anzitutto un’ammissione di fragilità, il bisogno fisiologico di recuperare ciò che del sé è visibile solo di riflesso, ciò che non si afferra e che disperatamente si tenta di richiamare all’ordine. Ciò che rientra nel delicato e complesso concetto di identità.

1.2   Debora Barnaba: Kissing Me

Nella serie di scatti dal titolo Kissing Me, la prima a rapire il nostro sguardo, il corpo di Debora si espone allo sguardo senza mediazioni, ricoperto da un bitume rossastro denso e vischioso, ovviamente giocando sull’ambiguità tra sangue e rossetto. Entrambi gli elementi – tanto il sottoprodotto dell’industria cosmetica quanto il liquido biologico – sono caratterizzanti del femmineo, per quanto alla funzione presentativa del primo si frapponga la natura intima del secondo. Eppure, ad entrambi nella foto è riservato il medesimo trattamento: che si tratti del risultato di un gesto onanistico o di un lascito mestruale, il tessuto cutaneo di Debora sembra volerci raccontare la circolarità esterno/interno in termini di appartenenza, la necessità di ricondurre alla differenza femminile non solo ciò che si vede in quanto volontariamente mostrato – il rosso della bocca, il residuo di un bacio – ma anche, e soprattutto, ciò che alla donna intimamente appartiene in quanto parte del suo ritmo biologico. Il brano fotografico ci comunica l’accettazione di un corpo che «dà a tutto il suo essere il significato metaforico di modificazione creatrice mutante» (4), un corpo che per accedere all’amore dell’altro deve prima di tutto amarsi; che prima di approdare all’epidermide vergine dell’altro deve necessariamente familiarizzare con la propria e ricondurla al proprio vissuto personale.
La rappresentazione del sangue simboleggia dunque un ritmo biologico fecondo, ma vissuto ancora con vergogna, che seguita ad atterrire, a provocare ripudio, ad essere inscritto nel panorama dei tabù; lo denunziano i centinaia di commenti pervenuti alla rivista dopo la pubblicazione del servizio sulle pagine nazionali. Perché ciò che conta non è che di sangue vero o finto si tratti, ma quello che perviene al lettore; come sempre, nel caso del fotografico: non ciò che è, ma ciò che è in quanto così appare. Ciò che sfugge alla spaziatura, al varco aperto dallo scatto.


Debora Barnaba, Kissing Me, 2009

Proprio in virtù di questo enorme potere del fotografico, il cui presente è sempre un “qui ed ora” ricostruito, le riflessioni a venire sono state numerose e di peso specifico non indifferente, soprattutto nel considerare che la mole maggiore di commenti sessisti (per non dire palesemente sconsiderati) riservati alle foto sia pervenuto da esponenti del sesso femminile. Lungi dal voler suscitare “scomodi pruriti”, perché non di pornografia s’interessa la trattazione, può apparire desolante scoprire in anni come questi, di ostentata quanto falsa emancipazione femminile, come in realtà la questione del corpo sia una falla ancora aperta nel tessuto sociale e culturale.
«Un corpo è per se stesso anche il suo divorarsi, la sua degradazione (…). Non solo l’esistenza comporta l’escremento (come tale, elemento ciclico), ma un corpo è anche e si fa la sua propria escrezione. Un corpo si spazia e ugualmente si espelle. (…) è così che il mondo ha luogo». (5)
È di questo che si tratta, in fondo: scardinare l’ipocrisia del corpo asettico, inodore, levigato ad arte così come la cultura mediale ci insegna, per affondare le radici in quelli che sono i liquidi organici, saliva, urina, metastasi e sangue. «Le aperture del sangue e quelle del senso sono le stesse». (6)
Corpo come piaga, pulsante e ardente, corpo come corteccia e come cloaca, corpo che si fa estroflesso, epidermide che tende e si espelle (7), generando da sé le sue tracce, seminando lungo il percorso elementi di senso perché esso stesso è il senso, corpo santo e impuro, perennemente da rifare.
Ipocrisia del corpo asettico, che rimanda all’ipocrisia del dolore: dalla scissione platonica al dualismo cartesiano, dalla condanna cristiana della carne allo sfruttamento in termini di forza-lavoro nella società delle merci, passando per le scoperte anatomiche e l’effimera rivoluzione femminista, «il corpo diventa quell’istanza gloriosa, quel santuario ideologico in cui si consumano gli ultimi resti della sua alienazione»(8). Un campo di battaglia martoriato e martirizzato, immolato per cause sempre diverse sull’altare sociopolitico, depurato della bestialità primitiva; superficie intonsa e appetibile, specchio anonimo.

* testo tratto da: 
Valentina Soranna,  IL SENTIRE EPIDERMICO Excursus interdisciplinare sul corpo-linguaggio: contributo dell’immagine alla formazione identitaria, tesi di laurea specialistica in Psicologia dell'Arte, Dip. Arti Visive, Bologna, 2011.



(1) S. Beckett, Tutti quelli che cadono, in Teatro / Samuel Beckett, a cura di P. Bertinetti, Torino, Einaudi, 2002, pp. 163, 171.
(2) J. Baudrillard, Design e Dasein, articolo contenuto in Agalma – rivista di studi culturali ed estetica, n. 1 -  Il fascino discreto delle merci,  Giugno 2000.
(3) Ovviamente ci si riferisce ai termini usati da R. Barthes, La camera chiara, Torino, Einaudi, 2003.
(4) F. Dolto, Il desiderio femminile, Milano, Mondadori 1995, p. 202.
(5) J. L. Nancy, Corpus, Napoli, Cronopio 2007, pp. 86 – 88.
(6) J. L. Nancy, ibid., p. 86
(7) I termini utilizzati sono ancora una volta presi in prestito da Nancy, op. cit.
(8) U. Galimberti, Il Corpo, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 13.

Per capirci.


Cosa rende il corpo meritevole di uno spazio autonomo?

La domanda da porsi, quella che mi ossessiona, è l'individuazione di una dignità a livello epidermico, che ne ridimensioni il senso e restituisca consistenza all'argomento fisico.
"Non corpo politico, né sociale; non corpo in guisa di bandiera, ma in veste di tramite, di racconto." 

Corpo che enuncia, che si dispiega. Totale estroflessione nei codici più o meno espliciti del disagio.
In un contesto che ne ridia sostanza, lì dove la depredazione è divenuta più evidente.

"Carne che si fa tessuto d’esperienza, nudità che si offre alla vista per raccontare di sé, semplicemente. Ossa che sporgono al di là del muscolo, come cordoni dolorosi di un’impalcatura in bilico."
Carne che aspira all'essere null'altro che se stessa, in una dimensione sociale di generale e reiterata inconsistenza.


Parliamo per capirci: non di sola anima vive l'uomo.


Self portrait, 2011