Un
po’ d’amore, non chiedevo altro, solo un po’ d’amore. Una volta al giorno, due
volte al giorno, cinquant’anni d’amore due volte al giorno, come quelli che
fanno la cura di carne di cavallo.(1)
Se
una declinazione contemporanea del corpo esiste, scavalcando l’abusata etichettatura
del post- e le conseguenti sottocategorie, essa appare senza ombra di dubbio
traballante, sospesa tra due estremi contrapposti, echi dell’antica battaglia
senza vincitori né vinti tra eros e thanatos. L’odierna corteccia – violata,
martoriata, in quiescenza, disseminata, sparsa – si trova suo malgrado in una
posizione di non poco imbarazzo, contesa fra la presenza e l’assenza,
inevitabilmente destinata a diventare terra di nessuno. Principalmente, ci pare
di riconoscere a ragione un impoverimento del lessico a lei destinato, fenomeno
che sicuramente non corrisponde alla sovraesposizione a cui i corpi sono quotidianamente
soggetti; pare di sentire di rimando gli strascichi delle parole di
Baudrillard, quando, riferendosi alla società del plusvalore, in Design e Dasein afferma: «[Non] è più
possibile sperare di attingere all’esistenza nel e attraverso lo sguardo
dell’altro, poiché non vi è più dialettica dell’identità. Tutto è ormai una
somma di apparire e di apparire soltanto, senza troppa preoccupazione per
l’essere».(2)
Muovendo
in avanti dalla nefasta premessa – dacché bisogna sempre possedere una dose
considerevole di coraggio – proveremo in questa sede a ripercorrere il processo
inverso, ovvero dall’esposizione epidermica significante all’essenza; dalla
costruzione di quella stessa significanza - che inevitabilmente necessita dell’altro – al significato intrinseco,
frutto di un’accurata eviscerazione del superfluo. Se un dialogo del corpo è ancora possibile, tenteremo
di stimolare la riflessione sul linguaggio attraverso il quale questo si
declina in campo artistico, essendo l’arte da sempre cassa di risonanza
privilegiata dei mutamenti sociologici in atto.
1.1 Debora Barnaba: Femminile Plurale.
La
scelta di partire da un’artista giovanissima come Debora nasce in seguito ad un
servizio fotografico a lei dedicato sul numero di luglio della rivista Il
Fotografo, servizio che ha dato la possibilità all’artista di acquistare
maggiore visibilità sul territorio nazionale.
Per quanto i
codici stilistici da lei utilizzati possano sembrare a primo impatto
elementari, uno sguardo attento al linguaggio dell’immagine ha lasciato
scaturire numerosi interrogativi relativi alla natura dell’autoritratto
fotografico, argomento al quale ci siamo dedicati già in occasione passata con
l’incontro Azioni Sentimentali –
Autoritratti di Debora Barnaba in data 24 novembre 2010 presso il
Dipartimento di Arti Visive di Bologna.
Prendendo piede
da uno sfondo essenzialmente asettico, la fisicità di Debora emerge, delicata e
imperante, senza mezzi termini. Ciò che colpisce maggiormente, nei suoi scatti,
è la capacità di quel corpo acerbo di sfondare la bidimensionalità del supporto
per approdare alla percezione di chi osserva; il suo emergere è un “qui ed
ora”, il suo monito è racchiuso in un “guardami, non perché sono bella, ma
perché sono io, e quello che vedi mi appartiene”. All’origine dello scatto vi è
un bisogno pulsante, quasi fisico e fisiologico, di raccontarsi, di vedersi
dunque al di fuori di sé per ritrovarsi. Fotografia che è specchio e complice,
immagine spesso inadeguata e incongruente, ma vera; delicata nella
composizione, ma vigorosa nell’intento, anche quando ci racconta di ferite
auto-inflitte, o quando ci mostra smorfie e torsioni innaturali della postura,
così vicina alle sperimentazioni artistiche della migliore Body Art, eppure
così lontana dal condividerne gli intenti politici.
Il corpo di
Debora è un corpo-in-divenire, al contempo un gioco quanto un giogo, una gabbia
quanto una meravigliosa macchina organica, fatta di ingranaggi flessibili e
legamenti. Epidermide che si svela all’occhio impietoso del fruitore non in
cerca di adulazione –come in molti erroneamente hanno mosso obiezione-, ma in
quanto proposta di verità nuda. Posto il fatto che nell’osservare una
fotografia c’è sempre il coinvolgimento di una dose più o meno accentuata di
voyeurismo spicciolo, ci si permetta di sottolineare che l’interesse cosciente
ad uno scatto di Debora Barnaba non può essere assimilato a quello provocato da
un nudo in copertina su Vogue; la motivazione principale è data dal messaggio,
da ciò che l’immagine intende comunicare, dalla presenza di un punctum, macula (3) che ferisce oltremodo, quello squarcio nella superficialità del patinato. Il
meccanismo di riappropriazione della corporeità - corporeità in guisa di
differenza - passa attraverso la manifestazione di gesti simbolici come il
bacio e lo schiaffo, attraverso l’allusione all’autoerotismo, al desiderio di
sé, che inevitabilmente concorre come parte attiva alla formazione di
un’identità equilibrata, e dunque ad un corretto approccio col mondo esterno.
Si è di fronte a una storia d’amore ed odio con se stessi, esternata per
poterla meglio comprendere e interiorizzare, per affrontare la vergogna dei
liquidi biologici femminili, che eppure denotano appartenenza alla differenza
in una società prevalentemente fallocratica.
Io non
ho importanza, l'unica cosa che conta è l'immagine, mentre lavoro posso farmi
qualunque cosa che non sento dolore, non sento nulla se non il piacere, il
piacere di essere me stessa, libera, sciolta, aperta, do me stessa, al mondo, a
chi mi vede, mi regalo. (Debora Barnaba)
Il linguaggio
stilistico di Debora parte da elementi di facile accesso per aprirsi
all’universale femminile cosciente, perviene alla consapevolezza della
fragilità dell’essente da vivere non come un limite, bensì come né più né meno
che una caratteristica determinante. Scevro della presunzione di assurgere a
monito sociale, l’operato della giovane fotografa si configura come un
personalissimo afflato alla vita, sostenuto dal desiderio di ritrovarsi e
riconoscersi nelle testimonianze pulsanti scattate dalle sue stesse appendici,
dalla mano-strumento. Un tributo al terzo
occhio, certo, ma anzitutto un’ammissione di fragilità, il bisogno
fisiologico di recuperare ciò che del sé è visibile solo di riflesso, ciò che
non si afferra e che disperatamente si tenta di richiamare all’ordine. Ciò che
rientra nel delicato e complesso concetto di identità.
1.2 Debora Barnaba: Kissing Me
Nella serie di scatti dal titolo Kissing Me, la prima a rapire il nostro
sguardo, il corpo di Debora si espone allo sguardo senza mediazioni, ricoperto
da un bitume rossastro denso e vischioso, ovviamente giocando sull’ambiguità
tra sangue e rossetto. Entrambi gli elementi – tanto il sottoprodotto dell’industria
cosmetica quanto il liquido biologico – sono caratterizzanti del femmineo, per
quanto alla funzione presentativa del primo si frapponga la natura intima del
secondo. Eppure, ad entrambi nella foto è riservato il medesimo trattamento:
che si tratti del risultato di un gesto onanistico o di un lascito mestruale,
il tessuto cutaneo di Debora sembra volerci raccontare la circolarità
esterno/interno in termini di appartenenza, la necessità di ricondurre alla differenza femminile non solo ciò che si
vede in quanto volontariamente mostrato – il rosso della bocca, il residuo di
un bacio – ma anche, e soprattutto, ciò che alla donna intimamente appartiene in quanto parte del suo ritmo
biologico. Il brano fotografico ci comunica l’accettazione di un corpo che «dà
a tutto il suo essere il significato metaforico di modificazione creatrice
mutante» (4),
un corpo che per accedere all’amore dell’altro deve prima di tutto amarsi; che
prima di approdare all’epidermide vergine dell’altro deve necessariamente
familiarizzare con la propria e ricondurla al proprio vissuto personale.
La rappresentazione del sangue
simboleggia dunque un ritmo biologico fecondo, ma vissuto ancora con vergogna,
che seguita ad atterrire, a provocare ripudio, ad essere inscritto nel panorama
dei tabù; lo denunziano i centinaia di commenti pervenuti alla rivista dopo la
pubblicazione del servizio sulle pagine nazionali. Perché ciò che conta non è
che di sangue vero o finto si tratti, ma quello che perviene al lettore; come
sempre, nel caso del fotografico: non ciò che è, ma ciò che è in quanto così appare.
Ciò che sfugge alla spaziatura, al varco aperto dallo scatto.
Debora Barnaba, Kissing Me, 2009 |
Proprio in virtù
di questo enorme potere del fotografico, il cui presente è sempre un “qui ed
ora” ricostruito, le riflessioni a venire sono state numerose e di peso
specifico non indifferente, soprattutto nel considerare che la mole maggiore di
commenti sessisti (per non dire palesemente sconsiderati) riservati alle foto
sia pervenuto da esponenti del sesso femminile. Lungi dal voler suscitare
“scomodi pruriti”, perché non di pornografia s’interessa la trattazione, può
apparire desolante scoprire in anni come questi, di ostentata quanto falsa
emancipazione femminile, come in realtà la questione del corpo sia una falla
ancora aperta nel tessuto sociale e culturale.
«Un
corpo è per se stesso anche il suo divorarsi, la sua degradazione (…). Non solo
l’esistenza comporta l’escremento (come tale, elemento ciclico), ma un corpo è
anche e si fa la sua propria
escrezione. Un corpo si spazia e ugualmente si espelle. (…) è così che il mondo
ha luogo». (5)
È
di questo che si tratta, in fondo: scardinare l’ipocrisia del corpo asettico,
inodore, levigato ad arte così come la cultura mediale ci insegna, per
affondare le radici in quelli che sono i liquidi organici, saliva, urina,
metastasi e sangue. «Le aperture del sangue e quelle del senso sono le stesse». (6)
Corpo
come piaga, pulsante e ardente, corpo
come corteccia e come cloaca, corpo
che si fa estroflesso, epidermide che tende e si espelle (7),
generando da sé le sue tracce, seminando lungo il percorso elementi di senso
perché esso stesso è il senso, corpo
santo e impuro, perennemente da rifare.
Ipocrisia
del corpo asettico, che rimanda all’ipocrisia del dolore: dalla scissione
platonica al dualismo cartesiano, dalla condanna cristiana della carne allo
sfruttamento in termini di forza-lavoro nella società delle merci, passando per
le scoperte anatomiche e l’effimera rivoluzione femminista, «il corpo diventa
quell’istanza gloriosa, quel santuario ideologico in cui si consumano gli
ultimi resti della sua alienazione»(8).
Un campo di battaglia martoriato e martirizzato, immolato per cause sempre
diverse sull’altare sociopolitico, depurato della bestialità primitiva;
superficie intonsa e appetibile, specchio anonimo.
* testo tratto da:
Valentina Soranna, IL SENTIRE EPIDERMICO - Excursus interdisciplinare sul corpo-linguaggio: contributo dell’immagine alla formazione identitaria, tesi di laurea specialistica in Psicologia dell'Arte, Dip. Arti Visive, Bologna, 2011.
(1) S. Beckett, Tutti quelli che cadono,
in Teatro / Samuel Beckett, a cura di
P. Bertinetti, Torino, Einaudi, 2002, pp. 163, 171.
(2) J. Baudrillard, Design e Dasein,
articolo contenuto in Agalma – rivista di
studi culturali ed estetica, n. 1 - Il fascino discreto delle merci, Giugno 2000.
(3) Ovviamente ci si riferisce ai termini usati da R. Barthes, La camera chiara, Torino, Einaudi, 2003.
(4) F. Dolto, Il desiderio femminile,
Milano, Mondadori 1995, p. 202.
(5) J. L. Nancy, Corpus, Napoli, Cronopio 2007, pp. 86 – 88.
(6) J. L. Nancy, ibid., p. 86
(7) I termini utilizzati sono ancora una volta presi in prestito da Nancy, op. cit.
(8) U. Galimberti, Il Corpo, Milano,
Feltrinelli, 2005, p. 13.