Il
corpo anoressico è un corpo desiderante. Anzi, è IL corpo desiderante per
eccellenza, che ha vergogna della propria richiesta smodata, eppure
violentemente la dichiara. Epidermide orante, che ha volontariamente
disimparato i codici dell’amor proprio, rinchiudendoli in un alfabeto
circoscritto alle limitazioni auto-inflitte. Il corpo anoressico è un corpo a disagio, che vive la propria
condizione in totale scollamento dalla realtà, per adagiarsi in una dimensione
del tutto autonoma, ricostruita di sana pianta, nella quale il demone della
magrezza diventa un leviatano che non lascia scampo. Con l’aiuto della
ricostruzione brillante di Massimo Recalcati, che da anni seguita ad occuparsi
dell’argomento, convalidata da testi clinici e testimonianze delle pazienti,
entreremo nel vivo di una questione che da anni si trascina insoluta, sfociando
in ambiti che non le appartengono – la televisione-spazzatura ne è solo un
esempio – a metà strada tra il proselitismo e la condanna da talk show. In anni
come questi, di apparente emancipazione, è ancora il caso di parlare di CORPO.
3.1 Il corpo a disagio.
Ancora una
volta, partire dal concetto: un corpo a disagio è innanzitutto un’interiorità
a disagio, che la pelle semplicemente svolge e precede; è
un’identità che non sente di avere un posto nel mondo, un’identità frammentata
o infranta, che ha incontrato un intoppo nel percorso del divenire. Un corto
circuito a voltaggio infinito, concentrato nella discrepanza tra il mondo
introiettato e quello reale, tra l’immagine che si ha di sé e quella
obiettivamente accolta. Tecnicamente parlando, si potrebbe partire dalla dismorfofobia[1]
(dal greco dis – morphé,
forma distorta e φόβος, phobos =
timore), ovvero l’incongruenza tra la percezione del proprio corpo rispetto al
modo in cui è visto dall’altro, il terrore di non riconoscersi nelle proprie
“vesti” perché non rispondenti all’immagine internamente costruita, che agli
stadi più acuti sfocia in disturbi alimentari quali anoressia, bulimia, binge eating e via discorrendo. Il
disturbo prevede una preoccupazione eccessiva per un difetto fisico - talvolta
inesistente – che impedisce al soggetto che ne soffre di considerarlo
secondario, tanto da diventare elemento caratterizzante del proprio vedersi e –
di conseguenza – del proprio essere al mondo. «La gran parte dei soggetti con
questo disturbo sperimentano grave disagio per la loro supposta deformità,
descrivendo spesso le loro preoccupazioni come “intensamente dolorose”,
“tormentose”, o “devastanti”. I più trovano le loro preoccupazioni difficili da
controllare, e fanno pochi o nessun tentativo di resistervi. (…) I sentimenti
di vergogna per il proprio “difetto”, possono portare all’evitamento delle
situazioni di lavoro, scuola o di contatto sociale»[2].
La
pelle si svuota, si smaglia, si ritira; perde d’idratazione affettiva, come una
foglia secca, e s’accartoccia. Il rifiuto di sé si tramuta in rifiuto
dell’altro, di altro, di qualsiasi
tipo di altro in quanto
esterno-da-sé, poiché un rapporto distorto con la propria esteriorità porta
inevitabilmente a difficoltà relazionali o – nei casi peggiori – ad una totale
impossibilità di confronto. Il corpo anoressico vive parzialmente; o meglio:
non vive, se non nella condizione che si è prefigurato; cammina in un mondo che
non gli appartiene, se non in funzione della sua distanza. Scrive Merleau
Ponty: «L’esistenza corporea che defluisce attraverso di me senza la mia
complicità è solo l’abbozzo di
un’autentica presenza al mondo»[3]. E
questo è esattamente quello che accade. Unitamente, si prefigura la perdita del
senso del tempo e dello spazio, com’è possibile leggere dalle testimonianze
delle pazienti in cura: «Si è in uno stato di perpetuo intontimento – non ci si
sente veramente presenti. Sono arrivata a un punto in cui dubitavo delle
persone che avevo intorno. Non ero sicura che esistessero veramente. (…) Non
v’era niente da dire – sentivo costantemente che non mi avrebbero comunque
capita.»[4]
La
carne, da testimone dell’esistenza, diventa ricettacolo immondo, nemico; il
soggetto affetto da anoressia s’illude di averne completo controllo, dando vita
alla danza spasmodica e ossessiva del continuo soppesare, misurare, delimitare,
finché non sopravvengono la perdita dei denti, dei capelli, del ciclo
mestruale, l’osteoporosi precoce e, non ultima, l’assenza di desiderio sessuale.
Il soggetto anoressico vive il proprio corpo al di là del principio del piacere,
poiché il suo orizzonte si limita al godimento esperito tramite la privazione
del cibo: «nel digiuno anoressico il corpo non è semplicemente cancellato, ma
god[e] dell’assenza dell’oggetto come se fosse la dimensione più piena
dell’oggetto. (…) Esiste piuttosto un godimento
del vuoto che pare più forte, o, più precisamente, per utilizzare
un’espressione freudiana, “più pulsionale” di quello della sazietà.»[5] Il
godimento è in questo caso per il soggetto limitato alla dimensione
edonistico-naturalistica, ma in virtù dell’essere godimento del vuoto appare interconnesso ad un’autentica pulsione
di morte, esattamente congruente con il suo opposto, in una totale
sovrapposizione tra Eros e Thanatos. «In effetti, come la clinica
psicoanalitica ci insegna, il corpo umano non è il corpo naturale che risponde
alla legge edonistica del principio di piacere, non è il corpo che persegue
innanzitutto il suo bene.»[6]
La
dialettica del corpo che si svuota si consuma interamente nel raggiungimento di
una perfezione estetica immaginaria; non è trascendentale né mistica, poiché
non aspira ad ideali di salvezza comunitari o individuali né li considera nel
suo percorso; «l’etica è qui al servizio integrale dell’estetica, è cancellata
dall’imperativo estetico che condiziona socialmente l’immagine ideale del corpo
magro»[7],
immagine che si tramuta in una fascinazione
mortifera.[8]
Lo scorporamento dalla fisicità è desiderato unicamente in funzione dell’ideale
di una magrezza scheletrica e asessuata, nella quale gli attributi fisici si
perdono quasi fossero appendici da piallare, indesiderate, sintomo sensuale di
un corpo che smette di riconoscere la propria attività ormonale per dedicarsi
unicamente al raggiungimento della perfezione presunta. Il Niente diviene nutrimento per eccellenza, elemento separatore fra
il soggetto e gli altri, che si coniuga nell’assenza d’appetito quale metafora
dell’assenza del bisogno dell’altro. Pur tuttavia, quest’assenza di bisogno
paradossalmente fa da pendant alla disperata ricerca di attenzione da parte
dell’altro, degli altri, di tutto il resto del mondo; il corpo anoressico
seguita a urlare il suo ossimorico bisogno del Niente con una veemenza fatta di ossa e di bocche affamate, che in
qualche modo implorano d’essere condotte allo strato pieno dell’esistenza, lì
dove l’amore negato possa essere solo un ricordo: “Dimagrendo, assommando chili
perduti, mi concedevo il permesso di farmi nutrire, di essere curata e
riconosciuta.”[9]
Per
chi non vive all’interno della dimensione mentale del soggetto anoressico, è
molto difficile – se non impensabile – la comprensione piena del circolo
vizioso che ne è alla base: il disagio provocato dall’indossare la propria
pelle quotidianamente giunge a condizionare ogni singolo istante della vita
vissuta (?), generando un circolo vizioso di riscatto, patimento e vergogna per
la propria condizione dal quale è estremamente arduo sciogliere i legacci. In
prima istanza, lo svuotamento fisico genera uno stato di eccitazione per l’obiettivo
conseguito pari a quello provato dal tossicodipendente dopo aver consumato la
dose abituale: se lo si vuole provare ancora, ovviamente si dovrà perseguire
nell’intento, accettandone i rischi. A ciò si aggiunge, in numerosi casi, una
sfrenata iperattività fisica, per raggiungere più velocemente i risultati
desiderati. In seconda istanza, la discrepanza tra immagine interna ideale ed
effettiva sembianza fisica genera un senso di ripudio permanente, un imperativo
psicologico a pressione infinita, alimentato in dimensioni sovraumane dallo
stesso impianto sociale fallocratico, per il quale il monito dell’apparenza
scavalca la verità del noumeno. In terza istanza, proprio in virtù di una
pressione psicologica smodata, all’eccitazione dei primi tempi sopraggiunge col
tempo la consapevolezza del male, parallelamente all’avanzare delle anomalie
fisiologiche, un male che divora e logora, ma dal quale non ci si può separare
perché condizione prima dell’essere al mondo. Un male che si vive con vergogna,
che rosicchia le giornate lembo dopo lembo, ma dal quale non ci si può esimere
poiché il corpo che ingrassa non è contemplato come possibilità dell’essente,
«se il corpo si riempie il soggetto viene
espulso dal proprio corpo».[10]
Il
corpo pieno, il corpo che si riempie è un corpo sudicio, che non preserva il
suo vuoto, che non difende il proprio diritto alle ossa. Recalcati identifica
nell’osso e nella bocca i punti focali dell’argomentazione sul corpo
anoressico, facendo del primo elemento lo ‘strumento’ del quale il soggetto ha
bisogno per tenersi avvinghiato alla propria identità, mentre attribuisce al
secondo la concentrazione dell’interesse in base al desiderio del Niente (o del Tutto, nel caso dei bulimici) relativamente al rapporto col cibo. Per
il soggetto anoressico, l’ossatura diviene l’impalcatura del vivere, ciò che
permette di ritrovare il baricentro; l’anca che sporge, che vince la carne; la
costola che si protende; la clavicola che s’affaccia a salutare lo sterno:
senza il ritrovamento allo specchio di queste parti il soggetto è perduto, come
se l’identità dipendesse dall’impianto scheletrico emergente. «L’osso
funziona qui come un centro di gravità, come qualcosa che permette al soggetto
di riallacciare il corpo ad un’immagine ideale possibile, di mantenerlo
prossimo a se stesso.»[11]
Di più: la celebrazione dell’osso rientra nell’ottica di un vero e proprio
investimento narcisistico, in base al quale l’esperienza della sporgenza
tramite il tatto e la vista diviene indispensabile, al punto da farne oggetto
di celebrazione. In qualche modo, le ossa sono la trama, le parti costituenti,
l’indice e l’esegesi di un racconto drammatico, al quale non è detto che sia
apposta necessariamente la parola Fine.
3.2
Anna Fabroni: Costole. La fotografia come terapia.
Il
progetto fotografico di Anna Fabroni
(1976) rientra all’interno di un delicato percorso di ricostruzione
dell’immagine identitaria fortemente compromessa dal disagio dell’anoressia. Lo
si potrebbe chiamare, in senso lato, autoritratto terapeutico, per quanto da questo stesso concetto si
distacchi, non essendo possibile
ritenerlo un atto intenzionale, piuttosto un’estrema conseguenza.
La
serie di scatti da cui prende piede Costole,
infatti, copre un periodo temporale esteso, di circa quattro anni (2001 –
2004), durante i quali la giovane donna sceglie la fotografia – il terzo occhio – per catturare immagini
nelle quali riconoscersi, per recuperare evidentemente il senso di
un’epidermide lasciata all’abbandono. Quelle stesse costole del titolo, insieme
ad anche, spalle, vertebre, accompagnate da un seno acerbo, quasi non fosse mai
cresciuto, ci riconsegnano alla vista un corpo in frammenti, privo di volto,
del quale non sarebbe possibile reperire l’identità, se solo non sapessimo. La
Fabroni sceglie il medium fotografico, ovvero un mezzo di interpretazione del
reale, per pervenire al reale stesso, alla sua immagine così com’è esperita
dall’altro; sceglie la natura indicale della traccia come testimonianza
dell’incontestabile per guardarsi dentro. Estroflessione propedeutica
all’introiezione, «come se ci fosse bisogno di rivivere e rivedere il proprio
corpo in frammenti, come se ci fosse bisogno di ricominciare da capo quel
processo di identificazione con la propria immagine allo specchio».[12]
Se, come scrive Susan Sontag, «fotografare significa (…) appropriarsi della
cosa che si fotografa»[13] ,
a maggior ragione lo si può affermare a proposito del lavoro sul corpo portato
avanti in questa serie di scatti, che appare più come lo scatto limite di una
volontà desiderosa di scavalcare la pressione psicologica del male.
Anna
Fabroni, Costole, 2001 - 2004
Foto
che sono un racconto, ma al tempo stesso un monito; mostrano ciò che rimane di una donna ai minimi termini,
rifatta a sua immagine e non
somiglianza. Eppure sempre una donna, costola
dell’uomo, cellula del tessuto epiteliale mondano; così come queste immagini
sono costole, appendici della sua
carne, figlie di uno stesso interminabile travaglio. Tramite queste accetta di
vedersi come gli altri la vedono, non sceglie di rivelarsi nella fierezza di
chi persegue un obiettivo categorico; il dolore che ne traspare, il senso di
soffocamento che ne emergono sono palpabili. Si ha la sensazione di accedere
direttamente all’intimità di un corpo violato, disperso, martoriato sotto il
giogo del desiderio del Niente, quasi
fossimo testimoni privilegiati, novelli S. Tommaso invitati a toccare la piaga.
Ecco: questa è carne della tua carne, questa è tua figlia, tua moglie, tua
sorella, questa è la femmina del tuo costato, anello delle tue vertebre, un
passerotto senz’ali; e tu che ne cogli il riflesso memorizzane l’eco, fa’ che
il suo corpo da gabbia diventi un’agape, sigilla e certifica la sua esistenza,
la sua non-invisibilità. Anche questo è tessuto vivo, anche questa corteccia
desidera; i suoi specchi, le sue finestre sono anche nelle nostre case.
3.3 Perdita del baricentro: l’immagine
e il modello.
Gli
esperti concordano nell’attribuire ai disturbi alimentari un’origine
socio-culturale, perlopiù associata agli stili di vita occidentali e ai modelli
loro connessi; anche nel caso clinico in senso stretto, questa contingenza,
questa secolarizzazione non può passare in secondo piano. L’anoressia in quanto
patologia certificata non è sempre esistita, per quanto sia possibile reperire
delle similarità a livello esecutivo – e non effettuale – nei casi di digiuno
propedeutico all’ascesi o congiunto al misticismo proprio della tradizione
religiosa o delle popolazioni indigene; a livello patologico, come abbiamo
precedentemente spiegato, l’inanizione si presenta slegata da qualsiasi
intenzione di tipo trascendentale. È prettamente un sacrificio all’immagine,
una sottomissione all’idolo della bellezza filiforme, un ripiegamento del corpo
su se stesso nella speranza di raggiungere una deleteria forma di perfezione.
Sicuramente, una formula che cova al suo interno l’elemento di distruzione. «People spend a lot of time not being themselves. Conditioned
by today’s beauty idol (…), many women see and experience their appearance as
inadequate and therefore in conflict with the idol». Razionalmente,
la donna è consapevole di coltivare l’aspirazione all’ideale (come metà
contrapposta del reale), ma l’idolo, per sua natura, è un prodotto costruito,
una creazione apposita, un modello culturale spesso talmente distante dalla
realtà che il voler prendere a tutti i costi le sue sembianze genera un gap a potenziale illimitato. Eppure «the
beauty idol, like any idol, garners ardent devotion»[14],
devozione stimolata e riverberata dall’industria della moda e dal mito del
benessere, che da questo principio base hanno innalzato il tempio di una nuova
religione.
Per
quanto non sia possibile ricondurre il fenomeno ad una precisa data d’inizio,
si potrebbe senza dubbio reperire uno scarto sostanziale nel passaggio di
staffetta (tra gli anni Cinquanta e Sessanta) dal canone della pin-up a quello
inaugurato da Twiggy ed Edie Sedgwick, musa di Warhol. Se, prima del loro
arrivo, l’ideale incontrastato e salutare riposava su una pelle morbida e ben
tornita, su fianchi ammiccanti e seni prosperosi, con l’atterraggio delle
modelle inglesi sulle scene internazionali si compie il cambio di programma:
non v’è più nulla della bellezza di Bettie Page o di Mae West in quei visi
emaciati, nei corpi ossuti e filiformi, nel colorito pallido che le
contraddistinguono. Lo slittamento avviene tra la giunone e lo spettro, tra la
colonna dorica e il filo di rame, in
un’ottica che investe a schermo totale non solo l’industria dei media e il
mondo della moda, ma la concezione stessa della beltà nel mondo occidentale e,
di conseguenza, anche le modalità dell’uomo di guardare alla donna. Gli abiti
proposti si adagiano a queste nuove fisicità come seconda pelle, la magrezza
diviene un imperativo categorico; la solarità sensuale delle icone della prima
metà del Novecento si affievolisce fino a scomparire, stemperandosi
nell’androginia naïve delle nuove muse, che alla presenza sembrano anteporre
l’assenza - assenza di un corpo sensuale e sessuato, assenza d’espressione,
assenza di femminilità se non nel make up e nei vestiti, quasi a confermare il
loro status di marchio di fabbrica -.
Immagini
di donne spettro rimbalzano quotidianamente dallo schermo alla carta, in una
danza vorticosa; lo spazio che una volta era riservato alle sfilate di moda è
diventato uno spazio diffuso, le dinamiche di marketing entro le quali
s’inscrive la pubblicizzazione del corpo (e attraverso il corpo) condizionano
il modo stesso di guardare
all’individuo.
Jane Russell
Sotto: Edgie Sedgwick
In
un panorama nel quale tutto è circoscritto all’essere brand, inseriti nell’immenso circolare delle merci, il
sovraffollamento mediale di presenze anoressiche ha prodotto un appiattimento
della concezione della patologia ad uno stato quasi simile alla normalità, se
non addirittura ideale, risucchiando l’argomento nel parler pour parler da conversazione da bar. La totale assuefazione
alle immagini - che dall’alto dell’indicalità che le contraddistingue sono pur
sempre rappresentazioni, interpretazioni
della realtà – anche in questo caso aggiunge legna alla brace entro la
quale riposa la “banalità del male”, quella che pone sullo stesso piano la
carne e il suo contrario, l’assassinio e la quotidianità; non stupisce dunque
riscontrare che gli spazi riservati alla trattazione dell’argomento siano
esigui e mal distribuiti. Al di là della documentazione scientifica, riservata
agli addetti al settore, il caso giunge all’orecchio dell’uomo comune attraverso
canali di bassa qualità ed alta risonanza – dal talk show alla rivista
settimanale – che finiscono per agevolare la mancata sensibilizzazione alla
malattia, messa così in vetrina tra un servizio di cronaca ed uno di gossip.
Scopo
dell’arte e della fotografia è, a nostro parere, ancora una volta educare
attraverso una diffusione calibrata delle immagini: un esempio vincente è stato
offerto da Oliviero Toscani con la
famosa campagna pubblicitaria per il marchio “Nolita” realizzata nel 2007 e
passata agli onori della cronaca non tanto per la rilevanza a livello sociale,
quanto per lo scandalo suscitato.
Protagonista
della gigantografia, affissa a Milano per un breve periodo di tempo, la modella
francese Isabelle Caro, da sempre testimonial consapevole della battaglia
all’anoressia, sebbene proprio a causa della debilitazione fisica sia venuta a
mancare alla fine del 2010, per complicazioni cardiache. La Caro, per anni il
volto del Male incarnato in un corpicino di appena 31 chili, non è riuscita a
vincere la grande guerra contro il demone della fame, lasciandoci però l’eco
portentoso della sua immagine rimbalzata di canale in canale su tutti i media
(eccetto quelli italiani, che tra un patetismo e l’altro hanno dato poco
rilievo alla notizia).
Oliviero Toscani, campagna pubblicitaria Nolita, 2007 |
Direttore
d’orchestra dell’iniziativa, quel Toscani che ha sempre fatto della
fotografia un mezzo di comunicazione privilegiato, ad alto tasso di
provocazione, caustico come la migliore tradizione pubblicitaria anglosassone.
Com’è scontato che sia (e nella migliore tradizione di Toscani), la campagna in
Italia ha destato enorme scalpore, dividendo le fazioni contrarie in una falda
contrassegnata dal peggiore perbenismo – per la quale esporre in prima pagina
un tabù terrificante come quello dell’anoressia è scelta riprovevole e di
cattivo gusto – e in un’altra preoccupata che l’immagine potesse contribuire
allo spirito di emulazione da parte delle adolescenti. Evitando di soffermarci sulla prima fascia di
contestazione, che trova da sé il commento appropriato, è opportuno chiedersi
se realmente l’effigie della Caro possa spingere ad atteggiamenti imitatori da
parte del pubblico in via di formazione, dall’alto di quel viso spaventato e
spettrale, più simile a un cadavere che ad un essere umano. In un impianto
culturale che costantemente rimpinza l’auditorio con l’idea che la magrezza sia
l’ideale da conseguire per avere un posto nella società, imbellettando il
concetto nella maniera più accattivante possibile, c’è da chiedersi quanta
ipocrisia sia celata dietro questo discorso. Piuttosto, è il caso di fare uno
scarto ulteriore e domandarsi per quale ragione, dopo i primi fuochi,
l’avvenimento sia passato rapidamente nel dimenticatoio, come nei migliori casi
di rimozione freudiana applicata al mediale: se realmente non c’è peggior sordo
di chi non vuol sentire, parimenti non c’è male immondo quanto quello che si
tenta disperatamente di nascondere - o, nei casi peggiori, di rendere piacente
in quanto base di un intero modello culturale -.
Compito
dell’arte, e della fotografia con essa in guisa di “sorella putativa”, è ancora
una volta quello di educare al
riconoscimento del demone, un demone che in questo caso nasce in seno agli
inferni privati, quotidiani; un morbo che s’annida dietro la porta di casa, fra
le pareti del bagno o della cucina, fra le mura domestiche quanto in strada e
sul posto di lavoro. Una patologia che uccide in silenzio, senza il clamore dei
media, tra una pagina e l’altra di blog pro-ana
(com’è “affettuosamente” chiamata nei gruppi di “sostegno” online: solo tra il 2006
e il 2008 il numero dei siti è aumentato del 470%). Quando la malattia diventa un’amica con cui condividere le
proprie giornate, si è già oltrepassato il confine del clinico, per approdare
ai livelli del mostruoso.
Toscani
ci lascia in consegna il ritratto impietoso di una degenerazione culturale,
scevro dall’edulcorazione a cui siamo abituati. L’elemento perturbante buca la
superficie in maniera improvvisa, rimettendoci alla cognizione delle cose che accadono, nonostante siano sepolte
da una cortina di silenzio, quello stesso silenzio che in misura esponenziale
offre la propria complicità al Male.
È davvero possibile parlare di cattivo gusto davanti a un caso come questo? E nel caso in cui la risposta sia positiva, dovremmo ammettere che esista un cattivo gusto del dolore? O che – piuttosto – sia la sofferenza ad essere considerata un elemento kitsch?
(Ironia?) |
L’educazione
al rispetto del corpo, proprio e altrui, non è pensabile senza l’educazione al
rispetto del dolore. Ciò che permette agli uomini del Ventunesimo Secolo di
riconoscere l’olocausto è l’approccio diretto all’avvenimento attraverso le
testimonianze vive e pulsanti, riservando loro peso, tempo e spazio adeguati,
per fare in modo che l’errore non si perda nelle trame della storia una volta
venuti a mancare gli ultimi baluardi direttamente connessi alla tragedia. Se il
silenzio arriva subdolo a ricoprire il senso primo degli accadimenti, nega in
un futuro prossimo la possibilità di discernere la giustezza dall’errore,
appiattendo l’insieme al medesimo piano d’osservazione. Tra il non vedere e il
non voler vedere intercorre un abisso
pericoloso.
Nel
momento in cui è la società stessa a promuovere l’indispensabilità del tacere
condiviso, l’esposizione all’abisso è prossima e inevitabile. Riconoscere il
germe all’interno di questa dinamica segna già una differenza cicatriziale nel
tessuto uniforme delle convenzioni; l’iniziativa di Toscani è proprio quella
ferita su di un corpo intonso.
Oggi, la miseria e la
violenza divengono, attraverso le immagini, un leitmotiv pubblicitario:
Oliviero Toscani reintegra così nella moda il sesso e l’AIDS, la guerra e la
morte. E perché non dovrebbe farlo (la pubblicità fatta alla felicità non è
meno oscena di quella fatta alla sventura)? Ma a una condizione: quella di
mostrare la violenza della pubblicità stessa, la violenza della moda, la
violenza del medium. Cosa di cui i pubblicitari sono perfettamente incapaci.[15]
Il
paradosso a cui Baudrillard fa riferimento è direttamente collegato
all’ipervalutazione di un’immagine svuotata ormai del referente poiché
assolutamente autoreferenziale, apoteosi dell’immagine per l’immagine, che
parla solo a se stessa (e solo di sé); un meccanismo che il filosofo scopre
applicato a tutti gli strati del mediale e che ha come risultato una totale
svalutazione del grado di significanza come estrema conseguenza della troppa
significanza, in ogni direzione. Per invertire la tendenza, per fare in modo
che l’immagine torni ad essere un ponte, è necessario che essa stessa ricominci
ad imporsi tramite i codici che le sono propri in quanto “traccia” e
rappresentazione, cessando di «violentare il reale per effrazione»[16]
attraverso la proposta di una distorsione che non corrisponde alla realtà ma
come tale viene spacciata. La fotografia di moda si inserisce in questo
sfasamento placida e congruente come acqua nell’ansa, rendendo imperativi dei
modelli distanti anni luce dalla quotidianità e rimandando così a
quell’idolatria già citata, sostanzialmente inattivabile sul piano del reale.
Il rischio maggiore è che l’esistenza stessa diventi null’altro che un rimando
al simulacro, apparenza dell’apparenza, fatta di corpi vuoti; epidermide pret-à-porter che fa dell’individuo
nient’altro che un ready made fra innumerevoli ready made, un cyborg alla moda,
una “musa inquietante”.
Il
correlativo visivo si può identificare felicemente (?) in quella VB47 proposta da Vanessa Beecroft nel 2001, performance nella quale un gruppo
nutrito di modelle staziona indolente in una sala bianchissima, tutte
indossando l’identica maschera priva di espressione, più simili a manichini che
ad esseri umani. Corpi statuari, perfetti – se ci si attiene agli standard
proposti dall’industria dell’immagine -, ma difficilmente riconoscibili, privi
di qualsivoglia variazione personale, esistenti unicamente in base al loro
essere aderenti al denominatore. Merce fra le merci, di buona qualità.
Vanessa Beecroft, VB47, 2001 |
Se
il sonno della ragione genera mostri, è anche vero che l’aderenza all’irreale
ricostruito dall’imperativo della moda produce una spersonalizzazione totale,
appiattendo la varietà dei segni fino a provocarne la totale scomparsa. O
peggio: riassorbito dall’ideale dell’immagine, è l’individuo stesso a pagarne
le conseguenze, alienandosi nella sua trappola fino a scomparire. «The diminishment of human being into a merciless idol
of perfection dehumanizes beauty. Dehumanized, beauty
becomes our demon.»[17]
L’unico
stratagemma possibile per un recupero del senso passa per la riabilitazione del
punctum, sostanziale e non
disseminato, né semplicemente in guisa di espediente tecnico per la cattura
dello sguardo: l’immagine che sa farsi ferita opera uno squarcio
nell’assoggettamento al simulacro. In questo, l’operazione di Toscani sembra
aver colto nel segno.
3.4 Jenny Saville: La brutalità della
differenza.
Nel
roseo paradigma della neutralità, può anche capitare di imbattersi in presenza
di personalità fuori dal comune, che riescono – attraverso il ribaltamento dei
codici dell’arte – a segnare una scarica differenziale nel flusso indistinto
dell’energia rappresentativa. Lì dove tutto sembra sospeso in un godimento
estetico idilliaco, finalizzato al distoglimento dalla crudeltà dell’evidente,
al divertissement, il ritorno ad uno
sguardo impietoso sul reale non è solamente auspicabile ma assolutamente
necessario.
Se
esiste un grande merito attribuibile alla Young British Art, al di là delle
numerose accuse dell’essere una schiera di artisti volta all’utile, questo è
sicuramente da rintracciare nella capacità di fare dell’informe e del grottesco
il soggetto privilegiato delle esperienze contemporanee, con un’intensità che
mancava dalle scene mondiali da tempo immemore. Nato in Inghilterra negli anni
Ottanta e affermatosi definitivamente nel decennio successivo sotto la
benedizione del gallerista Saatchi, si tratta di un gruppo disomogeneo che vede
all’interno della sua rosa nomi oramai imprescindibili quali Damien Hirst,
Tracey Emin e i Chapman Bros (per dirne alcuni), dotati ognuno di un proprio
linguaggio autonomo e perfettamente riconoscibile, per quanto accomunati da un
alto senso critico della realtà. Lo scopo principale delle loro opere,
diversissime anche per le tecniche utilizzate, è quello di provocare uno shock
autentico nello spettatore per quanto mai scontato, che racconti di tematiche
scomode e tabù inaffrontabili (la morte, l’olocausto, la deformità fisica, il
sesso) in maniera iperbolica ma affatto edulcorata. Ad una straordinaria
capacità creativa, capace di spaziare dalla scultura all’installazione, dalle
miniature all’olio su tela, corrisponde la ferrea volontà di perseguire
l’intento primo, ovvero il risveglio delle menti intorpidite dall’ordinario
fluire delle cose così come proposto e impacchettato dalla società occidentale.
In
particolare, per quanto riguarda l’uso e l’abuso dell’immagine femminile, ci
sembra il caso di porre il focus su una delle artiste del movimento YBA che al
meglio ha saputo rappresentare tramite tele e pennelli la distorsione cosciente
ad essa applicata. Ci riferiamo a Jenny
Saville (1970), nata a Cambridge e attiva tra Londra, New York e Palermo
dai primi anni Novanta.
I
suoi lavori, tecnicamente molto vicini alla migliore tradizione
espressionistica mondiale (da Kirchner a Lucian Freud e Bacon, al quale spesso
è stata paragonata), partono dalla scelta di dedicarsi a tematiche molto vicine
al femminismo, in primis il riscatto dalla mercificazione del corpo, per poi
investire in senso lato l’intero panorama della carne, cruda e cruenta, umana e
animale, dunque oscena. La brutalità dei contenuti e della pennellata – densa,
pastosa, violenta – fanno dei suoi quadri una parentesi priva di scrupoli sulla
manipolazione del corpo, allineandosi su un asse che procede dal frammento
all’intero in un perturbante valzer, nel quale soggetti comunemente considerati
di scarto (non solo dal mondo dell’arte) acquistano pari dignità e veemenza.
Così è possibile imbattersi, di tela in tela, in corpi tumefatti, donne obese
al limite dell’implosione, transgender, corpi da morgues affiancati a busti
sventrati di carne animale, isolati in una dimensione che appartiene loro
completamente, priva di qualsiasi connotazione decorativa, senza spazio né
tempo se
non
gli stessi spazi e gli stessi tempi della sola, disperata carne.
Jenny Saville, Shift, 1996-1997, olio su tela
Le
donne di Jenny Saville sono simulacri a metà strada tra la santità e il
martirio, corpi il cui volto (quando rappresentato) si perde come un contorno
che distrae dalla portata, a meno che non sia esso stesso il piatto principale.
È fondamentale considerare quanto proprio le pale d’altare visionate in Italia
siano state imprescindibili nella sua crescita formativa, contribuendo non solo
all’inserimento di un nuovo indirizzo all’interno delle rappresentazioni,
sempre più spesso organizzate in forma di trittici, bensì modificando anche la
concezione della sofferenza e del suo tramutarsi in immagine, sospesa a metà
strada tra l’iconografia religiosa e la crudeltà post-contemporanea.
Questa
carne non desidera altro che urlare il suo diritto all’esistenza, in un
percorso quasi analogo (seppur con le dovute differenze) a quello intrapreso da
Anna Fabroni con l’autoritratto frammentato; in un complesso stratificato in
cui è l’oligarchia a decidere per l’autodeterminazione dei corpi, nascondendosi
dietro la molteplicità di scelta d’acquisto in veste di garante della
democrazia, il corpo a disagio ha
passi più lunghi da compiere per giungere alla superficie. L’obesità,
correlativo patologico dell’anoressia in senso contrario, ci viene mostrata
dalla Saville così lucidamente da risultare terrorifica, essendo figlia di
quella stessa riluttanza che la società ci ha in qualche modo costretti a
provare in quanto base della spinta all’ideale; eppure – sembra dirci l’artista
– anche queste sono donne, anche queste occupano a diritto un posto nel mondo,
così come il loro opposto. Così come va riconosciuto che l’intensivo ricorso
alla chirurgia stia finendo per generare popolazioni di cyborg comunemente
accettate nella loro effettiva mostruosità, evidenziando il corto circuito
sostanziale tra l’accettazione dell’artificiale a dispetto del naturale che
spaventa, che inibisce poiché lontano dall’immagine delle immagini che come un
Leviatano ci governa. La scelta del grande formato non è affatto casuale: la
Saville ci costringe a guardare ciò che non vorremmo vedere, ci sottomette alla
nudità dei suoi soggetti senza offrirci possibilità di scampo. In molti
dipinti, il volto rappresentato non è altro che il suo (come nel caso di Plan) apposto a corpi estranei, come a
rimarcare la volontà di giocare un ruolo da protagonista nella sfida al
femminile: il suo non è uno sguardo asettico al problema, è una presa di
coscienza, come se quelle donne non fossero entità estranee e il suo compito
non fosse solo quello di frugare nelle loro identità. «I want to be the person. Because women have been so involved in being
the subject-object, it's quite important to take that on board and not be just
the person looking»[18].
Plan,
1993, olio su tela
Attraverso
il suo mescolarsi al soggetto, è quest’ultimo a prendere vita, a comunicare
oltre la superficie, a raccontarci l’innaturalità della sottomissione alle
logiche dell’appetito negato, delle diete, dell’entrare a tutti i costi in una
taglia piuttosto che in un’altra; attraverso l’esposizione impietosa della loro
differenza, i personaggi rappresentati ottengono un riscatto completo,
scrutando l’osservatore dall’alto dell’immensa tela, ponendosi – per una volta
– in veste di giudici e non di giudicati. I segni-traccia propedeutici alla
liposuzione diventano una cartina geografica, le cosce straripanti a penzoloni
dallo sgabello ricordano le Veneri Preistoriche, la carne non è altro che carne
e come tale dichiara il proprio diritto al mostrarsi, senza pretesa alcuna
d’erotismo.
La
donna, da elemento decorativo, torna ad essere soggetto e contenuto: il
nocciolo serio della questione, sembra dirci la Saville, non è tanto
l’esposizione del corpo femminile in sé, quanto l’esposizione finalizzata
necessariamente al soddisfacimento del desiderio maschile. Questa messa in
vetrina implica una sottomissione totale all’adeguamento agli standard, ormai
talmente radicata da risultare quasi impossibile da riconoscere e scremare: non
solo le abitudini alimentari, ma gli atteggiamenti, la postura, il linguaggio
femminili devono soddisfare le richieste del panopticon entro i quali si svolgono.
Il
corpo della donna appartiene più alla società di quanto possa appartenere alla
donna stessa; è un’immensa, fertile terra di nessuno, coltivata senza
possibilità di riposo, arata e ricostruita a somiglianza del canone imperante.
Il paradosso, al di là dei luoghi comuni, è verificare quanto proprio le donne
contribuiscano a reiterare i meccanismi di controllo maschilisti, a fare in
modo che siano perennemente attuabili in una dimensione entro la quale non v’è
spazio per la differenza, tantomeno per la sofferenza. Lo scarto compiuto dalla
Saville ci appare quasi salvifico: un immenso, gigantesco “Io Esisto”
scardinato da qualsiasi logica della bellezza convenzionale.
La
voce che non trova strada muore nella gola; anche essere donne è una conquista,
quando si sceglie di elevarsi dallo status di figurante a quello di presenza
attiva. Esistente. Convalidata dal coraggio di indossare con dignità le proprie
imperfezioni.
La
donna non è un corredo all’ apparato uterino, ma è doveroso che lo conosca e lo
rispetti in quanto elemento fondante della propria, meravigliosa differenza.
* testo tratto da:
Valentina Soranna, IL SENTIRE EPIDERMICO - Excursus interdisciplinare sul corpo-linguaggio: contributo dell’immagine alla formazione identitaria, tesi di laurea specialistica in Psicologia dell'Arte, Dip. Arti Visive, Bologna, 2011.
[1] Conosciuta
anche come Disturbo di Dismorfismo Corporeo.
“Il termine dismorfofobia e le relative patologie soggiacenti,
sono state descritte per la prima volta dal medico e psichiatra italiano Enrico
Morselli nella sua opera del 1891 Sulla dismorfofobia e
sulla tafofobia“ da http://it.wikipedia.org/wiki/Dismorfofobia#cite_note-1
.
[2]
Da http://www.ipsico.org/dismorfofobia.htm,
pagina web dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e
cognitiva.
[3]
M. Merleau Ponty, Il corpo vissuto, op.
cit., p.127 (corsivo nostro).
[4]
Testimonianza raccolta da H. Bruch, La
Gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale, Milano, Feltrinelli, 2003,
p. 20.
[5]
M. Recalcati, Fame, sazietà e angoscia,
da Kainos, rivista online, n°7, p. 2.
[6]
M. Recalcati, La bocca e le ossa,
documento reperibile alla pagina web http://www.scribd.com/doc/51166908/recalcati-la-bocca-e-le-ossa,
p. 1.
[7]
Ibid., p. 2.
[8]
Ibid., p. 3.
[9]
Testimonianza da H. Bruch, La gabbia
d’oro, op. cit., p. 21.
[10]
Recalcati, La bocca e le ossa, op.cit.,
p. 5.
[11]
Ibid, p. 6.
[12]
S. Ferrari, Il corpo adolescente, Il
corpo adolescente. Percorsi interdisciplinari tra arte e psicologia, Bologna,
CLUEB, 2007, p. 28.
[13]
S. Sontag, Sulla fotografia, Torino,
Einaudi, 1992, p. 4. (ristampa
it.).
[14] J. Frueh, Beauty loves company, in: Bodies
in the making: transgressions and transformations, a cura di N. N. Chen e
Helene Moglen, North Atlantic Books, 2007 [distribuz. americana presso New
Pacific Press, CA, 2006], p. 21.
[15]
J. Baudrillard, Il patto di lucidità o
l’intelligenza del male, Milano, Cortina Editore, 2004.
[16] Ibid.
[17] J. Frueh, Beauty loves company, in: Bodies in the making, op. cit., p. 23.
[18] Intervista di David Sylvester a J.
Saville: Areas of Flesh, pubblicata
in The Independent, 20 gennaio 1994, reperibile al sito web http://www.oneonta.edu/faculty/farberas/arth/arth200/Body/saville.html .
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